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forzare le vie dell'Inferno, di cui quel diavolo è uno dei custodi. E riporta, con molta dottrina, parecchi passi per provare che il significato piú antico di Satana ne' sacri Libri è questo appunto di avversario, e che a Dante, come a qualunque altro lettore attento, non poteva essere sfuggito.

Veramente, se questo solo bastassse, lo Scherillo non avrebbe torto di sicuro, perché quel significato piú antico era noto anche nell'erudizione comune, e possiamo esser certi che, ove pure Dante non lo avesse ricavato direttamente dalla Bibbia, lo avrebbe appreso di seconda mano dai libri. Papia che copia, come di solito, un po' a suo modo, da Isidoro (Etym., VIII, 11, 5), dice: "Sathanas latine sonat adversarius, contrarius, sive transgressor; veritati enim contrarius est, sanctorum virtutibus inimicus; ipse et transgressor quia in veritate qua conditus est non stetit; ipse et temptator, iustorum scilicet, Uguccione vi aggiunge, come esempio, quel luogo di Matteo in cui Cristo rivolge quella parola a San Pietro: "et Petrus domino volens contradicere meruit audire ab eo: vade retro Sathanas ; il qual passo è riferito anche da Dante nel De Monarchia ed è l'unico luogo, in tutte le opere minori, ove ricorra quel nome, come ha osservato lo Scherillo. Il Balbi, a sua volta, copia Uguccione. Anche agli antichi commentatori non era sfuggita questa cognizione: il Boccaccio parafrasa le parole dei lessici: "Satan e Sathanas sono una medesima cosa, ed è nome del principe de' demonj e suona tanto in latino, o contrario o trasgressore, perciocché egli è avversario della verità e nemico della virtú de' santi uomini; e similmente si può vedere lui essere stato trasgressore; in quanto non istette fermo nella verità nella quale fu creato, ma per superbia trapassó i segno del dovere suo; e il Buti: "Satan e Sathanas è una medesima cosa, et é lo maggiore diavolo dell' Inferno, et interpretasi contrario alla verità Ma né il Boccaccio né il Buti pensarono di riferire quella parola ad altri che a Satana. E, per vero, che Dante ne conoscesse il significato etimologico conta assai poco: tutto stava nel dimostrare ch'egli aveva deviato dalla tradizione chiesastica, scritta e popolare, del medio evo, che in Satana non riconosceva determinatamente altri che il diavolo, per assumere quella parola in un'accezione generica. Giacché, anche ammesso un Pluto filologo, ammesso cioè che Dante abbia proprio inteso di richiamarsi al significato etimologico della parola, non so perché disconverrebbe ad un qualunque spirito del male chiamare il suo capo avversario d'ogni bene, di Dio e dei Santi, come pare allo Scherillo, che lo giudica addirittura assurdo; e se pure l'attribuzione al Demonio ne implicasse l'invocazione, che forse, come vedremo, non è, non credo che sarebbe da arrestarsi a questa obiezione: "e a che lo invocherebbe, se quegli giace ormai inerte nel fondo laggiú "da tutti i pesi del mondo costretto „? O che forse Dante ha mai negata a Satana quella vintú che sua natura diede (Purg., V, 114.), il potere, cioè, e il mal volere? Non sarebbe ciò contrario, oltreché all'opinione precisa di Dante, espressa in piú luoghi, a tutta la concezione demonologica cristiana?

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Non c'è, dunque, contro l'attribuzione di Satan al Demonio, alcun serio argomento; e parve evidente e naturalissima a tutti i commentatori antichi, sui quali, in questo caso, la critica moderna non ha neppure il vantaggio di cognizioni nuove. Invece, l'attribuzione a Dante non può non sembrare troppo studiata e sot

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tire che disse aleppe perché sempre il toscano non solamente finisce la parola che dall'ebreo viene, in vocale, ma ancóra raddoppia l'ultima consonante, come qui il Poeta et il Petrarca ne' Trionfi: Tra' quali vidi Ippolito et Ioseppe. L'analogia è giusta, e, per il tempo in cui il Daniello scriveva, quel piccolo germe di osservazione linguistica, per quanto monca essa sia, non è da disprezzarsi del tutto.

Ma resta sempre a cercarsi che cosa aleppe significhi in questo verso, giacché anche i commentatori antichi, concordi tutti nell'identificazione della parola, si dividono, nell'interpretarla, in due schiere: l'una, la piú numerosa, spiegandola come esclamazione di dolore, l'altra intendendola nel senso figurato di Dio, capo, principio, che le compete come prima lettera dell'alfabeto. Anche questa divergenza è poco nota e meno stu diata; eppure è evidente che, si accolga l'una o l'altra opinione, o si rigettino ambedue, piú elementare concetto di critica impone prima di discuterle.

"

Le parole dei commentatori ci richiamano ancóra qui alla cultura grammaticale del tempo. Fra quelli che interpretano aleppe come esclamazione di dolore, Frate Giovanni da Serravalle dice: "alep est prima litera alphabeti ebrayci, sicut alpha greci, A latini, idest est prima litera latini alphabeti; est enim A adverbium exclamantis vel dolentis,; e il Boccaccio: alep è la prima lettera dell' alfabeto de' Giudei, la quale eglino usano a quello che noi usiamo la prima nostra lettera, cioè a; ed è alep, appo gli Ebrei, adverbium dolentis; e questo significato dicono avere questa lettera, perciocchè è la prima voce la quale esprime il fanciullo come è nato, a dimostrazione ch'egli sia nato in questa vita, la quale è piena di dolore e di miseria,. Benvenuto da Imola, il Buti, l'Anonimo Fiorentino e Stefano Talice da Ricaldone esprimono gli stessi concetti, quasi con le medesime parole.

Ora i lessici e le grammatiche del medio evo non dicono affatto che aleph sia una esclamazione di dolore:

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IN. ZINGARELLI. Parole e forme della Divina Commedia aliene dal dialetto fiorentino, negli Studi di Filologia Romanza, I, pagine 166-169.

2 In una recensione allo studio dello Zingarelli nel Giorn. stor. d. Lett. it., III, 419-21.

3 Non fa bisogno di ricordare il magistrale studio del prof, ER. NESTO PARODI, La rima e i vocaboli in rima nella Divina Commedia, nel Bull, d. Soc. dant. it., vol. III, pag. 81 sgg

come dunque quei commentatori lo asseriscono con tanta sicurezza?

Si tratta evidentemente di un equivoco, in cui era molto facile cadere colla loro cultura, e che basta un po' di riflessione per spiegare come sia sorto.

In genere si distinguevano per le lettere dell'alfabeto il nomen, la figura, cioè il segno grafico, e la potestas, cioè il valore è l'uso. Cosí, per un esempio, della prima lettera dell'alfabeto greco in relazione alla corrispondente latina, Beda dice che "tantum nomine discrepat, caeterum et figura et potestate nostrum a aequiparat (loc. cit., 151); e invece: ? Graecum ab r nostro et figura distat et nomine (ib.) „. La stessa identità di potestas trovavano i commentatori asserita nelle grammatiche e nei lessici, fra aleph ed a: e siccome, tra le funzioni di a, c'è quella di esclamazione di dolore, di cui, per giunta, nei comuni lessici si discorre subito dopo l'enunciata corrispondenza di aleph-alpha-a, ne deducevano che anche aleph ha quel valore: senza accorgersi dell'equivoco grossolano di attribuire al nome della lettera ebraica ciò che conveniva in genere al suono della prima lettera dell'alfabeto. Non sanno cioè che per aleph il nome non è uguale al suono come per a, o per lo meno, non mostrano di tener conto di una distinzione cosí sostanziale. 1

Ciò risulta evidente dalle parole citate di frate Giovanni da Serravalle e di altri commentatori che si contentano di asserire che a è avverbio di dolore, lasciando che il lettore tragga la facile deduzione dalla premessa identità con aleph; e il leggiadrissimo scerpellone del Boccaccio, pel quale, a giudicarne dal suo commento, i figli dei circoncisi vagiscono a suon di aleph!, ci dà modo di documentare l'equivoco, giacché è palese che egli attribuisce al nome della prima lettera dell'alfabeto ebraico ciò che sa in genere del suono vocalico a. Si confronti infatti Papia: "a gentibus ideo prior est litterarum quod ipsa prior nascentibus vocem aperiat, Boccaccio non ha fatto altro che parafrasarlo.

il

Che per avventura Dante stesso possa esser caduto nel medesimo equivoco, e che, per un caso singolarissimo, quegli interpreti ne abbiano divinato il pensiero, non è un'ipotesi che lusinghi, una volta trovata la genesi dell'errore; e piú legittimo è supporre ch'esso sia nato per riflessione, in servizio del commento alla Commedia,

Tanto piú che non solo non troviamo attestato nelle grammatiche e nei lessici quel significato di interiezione di dolore, ma neppure, a quanto si sappia, se ne hanno esempî nella letteratura medievale. Quello che il Novati ha fatto rilevare, dei primi versi del De diversitate fortunae di Enrico da Settimello:

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Quomodo sola sedet probitas? flet et ingemit aleph!
Facta quasi vidua quae prior uxor erat,,

troppo legato all'imitazione di Geremia, perché possa avere il valore di un riscontro.

Anche per ragioni di contesto questa versione non si addice punto al verso dantesco. Difatti, mettendo pure da parte che sarebbe stranissimo che Pluto ricorresse alla lingua ebraica, che non ha niente che fare con lui, per una interiezione, vale a dire per qualche cosa che gli bolle nell'animo e che dovrebbe erompere col suono piú immediato possibile, è logico osservare che, per do

1 Della quale, del resto, è bene avvertire che, sia nei lessici, sia nel De Arte metrica di Beda e nelle grammatiche piú comuni, non è fatta parola.

lersi, il demone avrebbe già dovuto accorgersi dell' inanità delle sue minacce contro un volere superiore; e allora lo avrebbe capito anche Dante, senza le molte parole di Virgilio per confortarlo e per confondere il demone già confuso: vale a dire, che ne verrebbe scema tutta la drammmaticità della situazione. Di piú Dante palesemente ci avverte che Pluto non fece un discorso, ma cominciò soltanto; e non si saprebbe che cosa gli restasse da dire, quando avesse già manifestato tutti i sentimenti a cui poteva trascinare il suo animo quell'avventura, dalla meraviglia del fatto nuovo, al dispetto di non poter nuocere ai due infrattori delle leggi d'abisso. Del resto, questi argomenti dovrebbero solamente aiutare a sfatare una prevenzione troppo inveterata e diffusa; ché a dimostrare erronea l'interpretazione di aleph, come esclamazione di dolore, basta aver provato che quel significato è stato creato di sana pianta dai commentatori.

Non si allontanarono invece dalla tradizione quelli fra gli antichi che interpretarono aleppe come Dio, capo, principio, che è il senso figurato attribuito in genere alla prima lettera dell'alfabeto. Ed è notevole che i due figli di Dante si accordino in questa versione. Iacopo dice: "Alepe in lingua ebrea, e in latina A, e altri disero alpha: però sichome principio della scrittura la qualle in sé tutto contiene, figurativamente qui si dice alepe, cioè Idio, sicome prencipio di tutto l'universo „. E Pietro: "Pluton videndo, auctorem vivum in suo regno, hoc est non mortuum in suo vitio, admirative exclamavit dicens: o Satan o Satan, caput et princeps daemonum, quid est hoc videre? Nam papae interiectio est admirantis: aleph vero prima litera est Hebraeorum, sicut Graecorum alpha et Latinorum a. Ideo dicitur Deum alpha et omega, ut in Apocalipsi, idest principium et finis " Similmente il Postillatore cassinese: "Pape sathan, idest, o Sathan aleppe, idest, principalis demon noster, sicut aleppe est principalis littera in alphabeto ebraico; quod est hic videre: nam pape dicitur interjectio admirantis, Guinitorto delli Bargigi probabilmente non si è saputo decidere, ed ha accolto e fuso insieme ambedue le interpretazioni.

Adunque, per questi commentatori, aleppe non è che un'apposizione di Satana: 1 spiegazione molto piú ragionevole dell'altra, che non fa a calci con la situazione e col contesto, e che sopratutto non è cervellotica. Difatti la volgare erudizione, che è rispecchiata nei commenti veduti, ha un riflesso anche nei nostri lessici. Cfr. Giovanni da Genova: " alpha prima littera apud graecos: et derivatur ab aleph hebrea littera: et ponitur pro principio „; e riporta come esempio l'apocalittico "alpha et omega,,, principio e fine. Piú esplicitamente Papia: "aleph prima littera hebreorum: apud nos autem deus interpretatur, ..

Come però si vede, anche qui i commentatori hanno voluto aggiungere qualche cosa di proprio. L'unico che applichi, nella sua forma pura, l'interpretazione tradizionale di aleph è Iacopo. Gli altri hanno cercato un adattamento: non già Satana Dio e principio delle cose, ma soltanto capo nostro, principe dell'Inferno. E perché ciò? È una correzione inutile, giacché il comune con

1 Non vorrei che qualcuno abboccasse all'amo e, ripigliando ancóra il significato etimologico di Satana, invertisse le parti, facendo satan apposizione di Aleppe in questa guisa: o avversario o avversario Dio! Non ne guadagneremmo proprio nulla, e credo che quanto abbiamo detto basti a far riflettere che l'uso di quel significato etimologico, se non impossibile, è, per lo meno, poco probabile.

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Non è un discorso, ma uno sfogo subitaneo, col quale Pluto comincia a manifestare i suoi sentimenti, ove nella sorpresa è già la minaccia. E la superba bestemmia, in cui quel gesto si concreta, conviene pienamente al male. detto lupo, al gran nimico, che tale non si palesava davvero facendolo guaire come un cagnolino frustato prima ancóra che vi abbai contro. È linguaggio d'inferno, sono voci di gente la cui superbia non s'ammorza neanche contro l'ira e la vendetta di Dio. Il gesto è chiaro e le parole stesse, singolarmente prese, non hanno quasi piú nulla di esotico. Difatti, come abbiamo veduto, per l'interiezione papé abbondano le prove che al tempo di Dante era notissima; Satan, nel senso antonomastico, che è quello piú ovvio, non era, al tempo di Dante come oggi, altro che il nome proprio del principe dei diavoli; e aleppe, nel suo senso figurato, è conoscenza dell'erudizione volgare, se anche non è mai entrata nell'uso, come è stato invece per la frase "alpha et omega „,, in grazia dell'Apocalissi. Che se nondimeno fosse a far questione della scelta, è da credere che il Poeta abbia preferito queste parole ad altre, o perché gli rendevano meglio il suono di voce chioccia, o perché non volle una bestemmia bassamente volgare.

Per avere un giudizio interamente obbiettivo, ho voluto mettere qui in fine quello che, detto prima, mi sarebbe stato di troppo

vantaggio: che, cioè, queste indagini, presentate come Tesina orale agli Studi Superiori di Firenze, parvero convincenti a quei dottissimi Professori. Anzi il prof. Mazzoni, sempre pronto alla cortesia, quanto è pronto d'ingegno, non ha esitato ad accogliere nelle sue magistrali lezioni del Giovedí sulla Divina Commedia, questa mia interpretazione, vale a dire la versione antica, giustificata e chiarita da queste ricerche.

L'altro famoso verso messo in bocca a Nembrot: Raphel mai amech zabi almi (Inf., XXXI, 67) è tutta un'altra cosa, giacch quelle parole sono veramente foggiate da Dante. Ma non in modo arbitrario, come si crede generalmente, sibbene secondo le comuni teorie sul processo di differenziazione dei linguaggi nella confusione babelica. È un linguaggio che dovrebb'essere a nullo noto, perché riservato a quel solo peccatore; sol che, mentre a Dante non era noto davvero quello che gli aveva destinato Dominedio, a noi è noto il materiale su cui egli stesso lo ricostruiva e il procedimento se. guíto; e possiamo rifare a nostra volta l'opera sua, molto piú agevolmente che non il Poeta nel rifare quella del Creatore. Spero di poterlo dimostrare prossimamente.

Intanto, mi preme far notare il grande profitto che si può ri. trarre dai tre nostri lessici per l'esegesi dantesca. Sono ottimi repertori dell'erudizione medievale, ai quali è sempre utile ricorrere. Lo facevano tutti i commentatori antichi, il Boccaccio compreso, anzi, forse piú di frequente degli altri; e non c'è ragione perché non lo facciamo anche noi. Sono spesso i commenti piú autorevoli, perché due di essi anteriori a Dante, e quello di Giovanni contem. poraneo; bisognerà che i dantisti ci facciano il palato. Ma anche su questo argomento mi riprometto di tornar sopra.

Su Papia e sulle sue fonti ha pubblicato recentemente uno studio G. Goetz, di particolarissima competenza in materia di glossari medievali, nelle Sitzungsberichte der philosophisch-philologischen und der historischen Klasse der K. B. Akademie der Wissenschaften di Monaco, 1903, pp. 267-286. Io avevo già preparato sullo stesso argomento, che è importantissimo anche per la storia della cultura laica del basso medio evo in Italia, la Tesi di Laurea, con l'aiuto e i suggerimenti del mio amatissimo prof. Pio Rajna, la cui bontà e condiscendenza è solo pari alla straordinaria valentía; e mi duole che particolari circostanze non mi abbiano ancora consentito di pubblicarla. Sarà per un tempo non lontano.

Firenze, 1904.

DOMENICO GUERRI.

RECENSIONI

GIUSEPPE AURELIO COSTANZO. Dante: poema lirico. Torino, Casa Editrice Nazionale Roux e Viarengo, 1903.

Dante oramai è un nome che spaventa. Noi non sappiamo immaginarcelo se non con un'infinita tratta dietrogli di comentatori, quando troppo rozzi e ignoranti, quando troppo dotti e pedanti, ma sempre incapaci di sentirne le divine bellezze e capaci solo di renderlo astruso, oscuro, noioso.

Anzi, noi non sappiamo pensare a' suoi versi senza il fastidio che ci cagiona il ricordo della nostra fanciullezza, quando fummo costretti a impararli a memoria senza capirli; il ricordo della nostra giovinezza, quando un professore di liceo ce li somministrò a piccole dosi, ma e bene annacquati delle eterne quistioni sul pié fermo, sulla salvazione di Cunizza, sulla condanna di Francesca; o quasi affogati in un intruglio indigesto di note filosofiche, critiche, storiche, e che so io!

Non è lontano il tempo che un povero uomo che voglia parlar di Dante farà il vuoto intorno a sé come una macchina pneumatica. Colpa di chi volle far del

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Ché appunto questo è il miracolo operato da Dante. Egli parti per la formazione del suo mondo, piena la mente di tanti preconcetti e pregiudizj scientifici, politici, filosofici, letterari e morali; involto ed inviluppato nelle forme e ne' concetti dell'età sua; legato e impastoiato da una falsa poetica, che gli consigliava di far servire la poesia alla scienza, e non lo lasciava libero in nessuno de' suoi movimenti, anzi, gli uccideva in mano, per cosí dire, la poesia, costretta ad essere abbigliamento esteriore della scienza, un velo sovrapposto alla verità, e perciò qualche cosa di estrinseco che non penetra e non si confonde con l'idea.

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**

un

Con tale bagaglio di pregiudizj, di preoccupazioni, di idee false, di preconcetti d'ogni sorta, egli avrebbe dovuto formare un mondo assolutamente lontano dall'arte come tutte le Visioni del suo tempo, come il Quadriregio, ad esempio.

Aggiungete ch'egli non si può neanche dire un vero filosofo che lasci un'orma del suo pensiero, e il cui sistema originale possa per avventura avere anche le sue attrattive come quelle che provengono dall'amoroso lavorío intellettuale onde il vero filosofo compie le sue investigazioni, cercando di penetrare nelle viscere del vero. No. Egli non fu altro che un uomo eruditissimo, che imparò tutto lo scibile de' suoi tempi. La sua filosofia è la fisolofia di tutti, ed egli l'accetta con gli assurdi e gli errori dell'epoca. E, come tanti altri, abbraccia e coinvolge nella sua ammirazione san Tommaso e Aristotile, Tito Livio e Paolo Orosio, Cicerone e Boezio.

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Ma, per fortuna, il caldo della sua passione ebbe virtú di sciogliere e dissipare tutta quella fitta nebbia scolastica onde era avvolta la sua mente. Il Poeta uccise l'erudito; e a dispetto della sua filosofia, della sua poetica, egli riuscí a fare della sua concezione un mondo eminentemente poetico, della piú alta poesia che si sia mai sentita; perché in mezzo a quel mondo morto e fossilizzato di formule scolastiche, di astruserie metafisiche, di astrazioni allegoriche, egli gittò tutto sé stesso, la sua anima passionata, la sua vita dolorosa di esule, la sua storia di fiorentino del Trecento; le sue lotte, i suoi amori, i suoi dolori, i suoi odî.

E non solo tutto sé stesso; ma ben anco la crudele Firenze con le sue divisioni; anzi tutto il mondo coi suoi papi e i suoi imperatori, con le sue ferocie e con le sue dolcezze. E riuscí, appunto per questo, a conseguire una originalità senza pari, perché non è fondata sulla parte materiale ed esteriore, nella quale son pur cosí facili gl'incontri, le somiglianze procedenti talvolta da comunanza di situazione; ma è fondata sul modo tutto proprio di osservare, di sentire, di pensare, di credere. Ed ecco perché anche quando, innegabilmente, deriva da altri, Dante sa essere originale: perché è sempre lui, perché sa riversarsi, per cosí dire, tutt' intero nell'opera sua, con le sue predilezioni e le sue ripugnanze, con le sue magnanimità e le sue vendette.

Quando, per esempio, nell'ottavo cielo una magnanim'ira fa trascolorare la face ond'è fasciato lo spirito di san Pietro e gli detta le roventi parole contro chi usurpava in terra il loco suo, noi vediamo il Poeta sotto le vesti di Pietro, noi sentiamo sotto le parole del Santo scorrere la lava ardente dell'ira dantesca, e dimentichiamo paradiso e santi, e torniamo con la mente al dramma che rese tanto travagliata la vita dell'esule fiorentino appunto per colpa di quel romano pontefice.

Come nella rappresentazione del suo fantastico mondo materiale egli riuscí pittorico ed efficace perché seppe rappresentarlo con colori tolti dal mondo reale, dal "dolce mondo „, anzi dall' "Italia bella, e dal “bell'ovile,; cosí nella rappresentazione del mondo morale riuscí poetico perché seppe obbliarvisi dentro, e alle astruserie filosofiche dar vita e luce, alla astrattezze piú sottili dar forma concreta, trasformandole in immagini nuove e colorite.

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Ma i comentatori dimenticano assai spesso e volentieri che Dante è, soprattutto, un poeta, e vanno in cerca di contraddizioni, di inconseguenze, di irrazionalità di ogni sorta; senza pensare (come disse il Porena) che altro è la ragione che regola in modo assoluto i rapporti immutabili, oggettivi delle cose; altro quella che domina nella visione soggettiva delle cose stesse, ed ha norme molto più larghe, piú indulgenti, piú relative „. A meno che non si tratti d'incoerenze nel carattere di un personaggio, di un'opera d'arte drammatica o simile a drammatica; nel qual caso, siamo come acutamente osservò il D'Ovidio d'una esigenza scontrosa e "non tolleriamo la distrazione, l'incoerenza; salvoché, s'intende, il carattere non consista appunto nell'essere sistematicamente distratto o incoerente 29.

II.

Tali pensier mi son venuti in mente leggendo il poema lirico di Giuseppe Aurelio Costanzo; e, piú che il poema, certe critiche che ne sono state fatte.

Il Costanzo invero si occupa e si preoccupa appunto delle allegorie, dei simboli, dei sensi riposti, delle quistioni filosofiche, morali, religiose; delle contraddizioni e delle incoerenze.

Rivolto a Dante, egli dice:

Lungi, assai lungi il piede

dal ver, poeta, muove,

chi l'uno e il due, in te, crede cabala, e il tre e il nove.

Chi ben intende vede,

che ardue, eccelse prove

e glorie eterne e nuove,
de la cristiana fede

son essi; e del divino
poema tu ne fai,

fine, sostanza e forma.

E rivolge a Dante parecchie domande di simil ge

nere:

Perché i beati non sono

che pochi prenci, o dotti

e pochi frati, rotti

al mondo, della Chiesa poscia sorti a difesa carnefici ed eroi?

Ed al divin cospetto cope parlar mai pote Cunizza, Raab, Folchetto? - E perché

all'eterno pianto

è Francesca reietta

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nell'Inferno chi (secondo il Costanzo, per altro!) meritava le glorie del Paradiso, ed innalzare sugli scanni beati chi (sempre secondo il Costanzo!) andava messo al posto di Francesca da Rimini.

L'importante è di vedere se, pur facendo male dal lato della giustizia e della moralità, ha egli saputo dar vita alle sue creature, ha fatto un'opera d'arte impareggiabile. La perfezione morale non è perfezione artistica. Il Costanzo avrà ragione, e Dante avrà avuto torto; ma che perciò?

Pare impossibile che certi criterî vivano ancora, dopo che il De Sanctis li ha flagellati nel modo che tutti sanno e dopo ch'è stato pubblicato il libro del Fraccaroli sull'Irrazionale nell'Arte.

O che si voglia tornare ai bei tempi in cui si giudicava del merito di uno scrittore secondo il suo corredo di idee filosofiche, politiche, morali e religiose? "Se moralmente considerati, i negligenti tengono il più basso grado nella scala de' dannati, e paiono a Dante sciagurati' piú che peccatori, il concetto morale rimane estrinseco alla poesia, e non serve che a classificare i dannati. Altri sono i criteri del poeta. La morale pone i negligenti sul limitare dell'Inferno, la poesia li pone piú giú dell' ultimo scellerato, che Dante stima più di questi mezzi uomini „.

Avea parlato chiaro il De Sanctis, mi pare. Eppure il Costanzo scrive non meno di trecento sonetti per dire che Cunizza non meritava il Paradiso, né Francesca l'Inferno, e per agitare tante altre quistioni di simil fatta! E si scalmana, e si arrovella per far intendere ai suoi lettori tutta l'ingiustizia d'un simile procedere del divino poeta. Ne farà una malattia, se non vorrà seguire il consiglio che gli dà un arguto critico del Marzocco: Non c'è che una cosa sola da consigliare: distrarsi molto e cercare di pensare ad altro. La Divina Commedia è oramai quello che è. Purtroppo bisogna rassegnarsi a veder Francesca nell' Inferno e Cunizza in Paradiso,,!

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Proprietà letteraria.

STANISLAO DE CHIARA.

Città di Castello, Stabilimento tipo-litografico S. Lapi, settembre 1904.

G. L. Passerini, direttore Leo S. Olschki, editore-proprietario-responsabile.

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