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vanno ricercate nei tumulti studenteschi del 1321 e nel « Polifemo» dell'ultima ecloga, di cui abbiamo già dato notizia, e che, secondo il F., simboleggia il 'furor partigiano'. Bene quindi avrebbe fatto Giovanni del Virgilio a venir via da quell'antro dove non v'era libertà: tanto piú che poco dopo l'amico di Dante, umiliato, senza stipendio e ferito, era costretto a cercar rifugio in Cesena. 1

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Intorno al noto passo del De Vulg. Eloq., I, IX, 4 secondo il quale in Bologna, ai tempi di Dante, oltre il vernacolo che parlavano i Bononienses Burgi Sancti Felicis et Bononienses Strate Maioris, esisteva una lingua che egli con altri giudicava la migliore di tutte le altre d'Italia, discussero in vario modo il Carducci, il Monaci, il Gaudenzi, ecc.; a formare la locutio bolognese avevano concorso gli Imolesi infondendovi la loro lenitatem atque mollitudinem, i Ferraresi e i Modenesi aliquam garrulitatem, que prope Lombardorum est. Ciò ha indotto Alberto Trauzzi ad uno studio utilissimo: a indagare il volgare usato nella parlata e nella scrittura, nelle conversazioni famigliari e negli affari della vita ordinaria dalle classi medie e colte, non ripetendo cose note e servendosi di documenti che potessero avere in quel tempo carattere ufficiale e artistico, ma di scritture bolognesi che rispecchiassero la conversazione familiare e la vita ordinaria. Cosí, mentre si esclude la Regola dei Servi della Vergine del 1281 e il Sirventese dei Lambertazzi e dei Geremei, ecc., si accolgono documenti popolari e popolareschi, in gran parte inediti, tratti da Archivi e da biblioteche pubbliche e private, quali i Testamenti, gli Atti del Capitano e del Podestà, le Inquisizioni, gli Estimi, gli Strumenti, le Accusationes, i Decreti e Sentenze, le Lettere di privati, ed altre scritture di che son piene le vacchette e i bastardelli notarili. Cosi questa scelta, Il volgare eloquio di Bologna, che il T. aveva in animo di compilare soltanto su documenti del primo decennio del trecento, ma che effettivamente ha esteso dal 1273 al 1400, giacché la fisionomia di un

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linguaggio non si modifica da un anno all'altro, tanto piú che i documenti esaminati mantengono tutti la medesima figura linguistica, è veramente utile, rappresentando il linguaggio della vita ordinaria, non il raffinato e il letterario.

Di Benedetto da Cesena, un umanista da noi già conosciuto attraverso uno studio di L. Piccioni,1 ci offre non inutili notizie A. F. Massèra, Un romagnolo imitatore del poema dantesco nel Quattrocento. Il De honore mulierum, stampato nel 1500 a Venezia da Bartolomeo di Zane da Porteso e dedicato a Pandolfo Malatesta, se nulla aggiunge alla nostra poesia volgare del secolo XV, può offrire un qualche interesse per i nostri studi col pedissequo e fedele compendio del Paradiso dantesco contenuto nel libro IV. Il M. identifica il Malatesta in un figlio di Sigismondo e di Isotta degli Atti, e riesce, attraverso alcuni accenni a restringere al 1454 la data della sua composizione. Inoltre ci dà nuove notizie, tratte da spigolature d'archivio, sul poeta e lo disegna abbastanza nitidamente sullo sfondo tumultuoso di cortigiani, di uomini d'arme e di letterati che l'intelligente condottiero e mecenate riminese seppe raccogliere intorno alla celebrata sua donna, viva ancora attraverso le medaglie di Matteo de' Passi e del Pisanello e i carmi di Basinio da Parma e di Trebanio :

Isotheam Superi dixerunt nomine divam.

Avremmo amato altresí la riproduzione sia pure parziale o una rapida critica dei passi del poeta cesenate che in qualche modo possono riattaccarsi al Paradiso di Dante.

Un tipico caso di vanità ricostruisce rapidamente Santi Muratori, in Un aneddoto per la storia della fortuna di Dante. Sono ben note le incisive parole del Leopardi a proposito del sepolcro del Guidi. « Vicino al sepolcro del Tasso è quello del poeta Guidi, che volle giacere prope magnos Torquati cineres, come dice l'iscrizione. Fece molto male. Non mi restò per lui nemmeno un sospiro. Appena soffrii di guardare il suo monumento, temendo di soffocare le sensazioni che avevo provate alla tomba del Tasso ». Era infatti un bel volo, ma almeno si trattava di due poeti. Nell'aneddoto del Muratori ci imbattiamo invece in un « magnifico e nobil uomo: il signor Antonio del fu Francesco Barbarini di Firenze» (probabilmente un banchiere) il quale il 7 febbraio 1540, in Ravenna, fa testamento e tra le varie disposizioni ordina che qualora gli fosse accaduto di morire in quella città, venisse sepolto presso la Chiesa di San Francesco, accanto alla tomba di Dante fiorentino. E non gli basta; ma vuole che

1 A proposito di un plagiario del « Paradiso » dantesco, in Appunti e saggi di storia letteraria, Livorno, 1912, pag. 1

e sgg.

ivi stesso gli sia eretto un sepolcro simile (simile, si badi), fino alla somma di scudi trecento. Che il Barbarini amasse Dante e ambisse che questi fosse << il vicin suo grande », sta bene: ma esigere un sepolcro simile era cosa da passare il segno. Il documento dice proprio cosí: ejus cadaver tumulari voluit penes ecclesiam fratrum S.ti Francisci de Ravenna et ibidem prope sepulchrum Danthis florentini ubi etiam fieri iussit simile sepulchrum. La sorte trasse il Barbarini a morire altrove e la bizzarra volontà del testatore fu evitata. D'altra parte sarebbe stato curioso vedere un secondo mausoleo dantesco, seppure i frati minori non avrebbero ridotto il disegno facendovi sopra qualche risparmio, come avvenne per la cappella di Guidarello Guidarelli. Il M. riproduce integralmente l'atto, da un Protocollo dell'Archivio Notarile di Ravenna. Del resto, conclude, « anche dentro la tomba di Dante c'era un ospite. C'era e dopo breve assenza v'è tornato: un ospite, però, cosí discreto, che s'è contentato d'entrarci col solo titolo sepolcrale, e per non farsi vedere s'è voltato dalla parte del muro. La lapide su cui è incisa l'iscrizione commemorativa e dedicatoria del Bembo: Exigua tumuli Dantes hic sorte iacebas, è amfigrafa. Staccandola dalla parete in occasione dei lavori pel centenario, s'è trovato sul suo lato posteriore l'antico epitafio di un Severiano prete, che visse pacificamente fino a ottant'anni e in pace hic requiescit, tacito coinquilino di Dante, umile e fortunato mortale il cui ricordo e la cui pietra funeraria dovevano rimanere, pei secoli, legati alla tomba del piú gran Poeta del mondo! ».

scano.

Chiude il volume un lungo studio su Dante e Ferrara di Michele Catalano, in cui sono condensate pregevoli notizie. Eccone il sommario: 1. La questione della donna di « Val di Pado ». 2. 1 vanti di Ferrara, di Parma, di Padova, di Verona e di Modena. 3. Il racconto del Boccaccio. — 4. La chiosa dell' Ottimo. 5. « Val di Pado» nell'uso to6. Significato di VALLE nei documenti medievali ferraresi e nel dialetto moderno. 7. Valore dell'espressione « Val di Pado» secondo Benvenuto da Imola. 8. Due testimonianze del secolo XVI: il Pigna e il Canigiani. 9. Dante e il dialetto fer10. Il « soprannome» ferrarese di Dante. 11. Foneticamente ALDIGHIERI poté diventare ALIGHIERI. 12. La donna di Val di Pado» ebbe per nome ALDIGHIERA o per cognome ALDIGHIERI ? 13. Gli Aldighieri in Ferrara e il loro sepolcro in 8. Maria Nuova. 14. Il culto di Ferrara per Dante nei secoli XIV e XV. 15. Fu Dante a Ferrara ?

rarese.

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Il C. aggiunge con le sue ricerche, qualche buona osservazione allo scritto del Rajna, Il casato di Dante: a proposito di valle egli asserisce che in an

Negli Studi danteschi del BARBI, Firenze, Sansoni, 1921, pagg. 59-88.

tico ferrarese voleva dire « terreno acquitrinoso e pantanoso, coperto generalmente di erbe palustri e di canneti », tale designazione è conservata anche quando il terreno è stato bonificato e trasformato in terreno produttivo. Cosí, mentre in antichi documenti troviamo locazioni di unam vallem piscatoriam et boschivam, ecc., il vocabolo rivive oggi nel dialetto e anche nella lingua letteraria: cfr., ad es., le leggi per la bonifica delle valli nel delta padano. Concludendo, il C. tenendo presente la chiosa di Benvenuto al verso: « mia donna venne a me di val di Pado»: <«< idest a Civitate Ferrariae, qua est in valle Padi, immo est clausa intra tres ramos Padi, et undique clausa », crede che si debba intendere con Val di Pado, Ferrara, perché con tale denominazione si chiamava il delta del Po, entro i cui rami era chiusa la città. Interpretazione certo acuta ma Dante, riferendosi al noto passo, usò la parola valle nel significato piú ovvio, che si soleva dare alla parola al suo tempo, oppure le conferí la significazione che aveva nel ferrarese? La questione entra cosí in una nuova fase. 1

Tre appendici chiudono lo studio del C.: a) Documenti su « valle » nell' uso ferrarese (vanno dal 1253 al 1440); b) Documenti sugli Aldighieri di « Val di Pado» (vanno dal 1212 al 1309 per quelli rinvenuti nelle pergamene dei Battuti Bianchi; dal 1367 al '79 quelli del notaio Piero Pialbene); c) Codici e commenti danteschi a Ferrara (brevi ricordi di mss. danteschi dal 1418 al 1518, tratti da inventari).

I. DEL LUNGO. Storia esterna, vicende, avventure d'un piccol libro de' tempi di Dante. Milano - Roma - Napoli, Società Editrice Dante Alighieri di Albrighi, Segati & C. 1917. In-8 picc.; vol. I di pagg. 420, vol. II di pagg. 408.

Habent sua fata libelli, e noi dobbiamo esserne grati all'autore, se oggi possediamo la « ricca storia di un libro », tenue di volume, ma importantissimo per la storia letteraria e civile e per gli studi danteschi la Cronica di Dino Compagni. Il Del Lungo, com'è noto, spese trentennali fatiche nell'esemplare il testo, nel dichiarare la lezione, nel seguire le vicende che attraverso i secoli corse il volume dello storico fiorentino: qui egli riprende la sua trattazione e « delinea di secolo in secolo », come avverte nelle prime parole introduttive a Orazio Bacci, cui il libro è dedicato, la storia della Cronica. Un volume ghiotto non soltanto in sé ma per i retroscena e gli aneddoti che ad esso si accompagnano discen

Intorno a diverse ipotesi e conclusioni del C. sarà opportuno tenere in giusta considerazione talune osservazioni del LIVI, Su la patria e la famiglia della moglie di Cacciaguida in Giorn. Dant., a. XXV, quad. II.

dendo il fiume del tempo, e che il D. L., con la sua esperienza consumata di biblioteche e di archivi pubblici e privati fiorentini, ha saputo riesumare e far rivivere.

In un primo capitolo si traccia la storia interna della Cronica del Compagni, quando e con quali intendimenti la scrisse, con che criteri e su quali materiali: la rapida disamina si corona quindi di un nitido profilo dell'autore, figura vivida e passionata sullo sfondo di uomini e cose. La Cronica non solamente per i dieci anni che ancor visse Dino, dopo averla terminata, ma anche più tardi dai figliuoli fu tenuta nascosta, perché come uomo di parte le sue memorie avevano speciali ragioni di cautela. Ad ogni modo ciò non vuol dire che il volume rimanesse completamente nascosto: lo dimostra proprio un commentatore di Dante, l'Anonimo fiorentino sul quale il D. L., riprendendo il noto studio, intrattiene il lettore, mostrando come il chiosatore usufruisse, oltre che del Villani, anche della Cronica. Il D. L. cita i passi del Commento mettendo a fronte il testo del Compagni: segnatamente quelli, in cui irrompe l'acerba ironia per « la ben guidata sopra Rubaconte », del Purg., XXIV, quando Forese predice la morte di Corso, ecc. e mostra alcune curiose contaminazioni in cui l'Anonimo attinge contemporaneamente dal Villani e dal Compagni insieme.

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La Cronica si affaccia nel secolo XV passando di copia in copia, soffrendo qualche tramutazione, giacché i copisti volevan farla piuttosto da interprete e << scambiavano voci e proprietà de' tempi dello scrittore per mettervi quelle de' tempi loro », come scrivevano i Deputati del 1573 nelle loro Annotazioni al Decamerone. E a poi non solo non è giunto l'autografo o apografo fidissimo, di sul quale l'Anonimo lesse la Cronica, ma copie posteriori, quali l'Ashburnamiano colla data 1465, e il Magliabechiano del 1514, e nel seicento, i Compagni, per trascriverla, dovettero chiedere ad altri la Cronica! Il codice raccolto dallo Stradino (Giovanni Mazzuoli,

1549) dà occasione al D. L. di trascrivere un gustoso profilo di questo poetastro, cavaliere e soldato, il sollazzo delle brigate del tempo e della musa del Doni, e che, al pari di Don Chisciotte, andava affastellando in un suo « armadiaccio » quanti romanzi d'avventure poteva, estendendo poi le sue ricerche ad antiche Croniche: pagine sollazzevoli, tanto è ricostruita con tutte le sue debolezze, le sue vanterie, i suoi sproloqui, le sue caratteristiche bruttezze fisiche, la persona dello Stradino, « cittadin sanza istato, soldato senza condizione, profeta come Cassandra, ecc.» come si compiaceva contraddistinguere.

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Con ben altro senso storico che nel cinquecento, il secolo successivo attese a radunare e interpretare documenti, e al D. L. è sembrato, in special modo per gli eruditi fiorentini, « squadernando que' loro zibaldoni, spogli, cataloghi, transunti, selvacce di dati e di nomi, fredde squallide ed irte, nelle quali si consumava, senz'altro produrre, tutta la vita di quei brav' uomini » che que' pruneti di cifre e di nomi proprii si agitassero in quelle loro rabescate scritture, mormorando tra pagina e pagina crucciotamente: « Uomini fummo ed or sem fatti sterpi». La figura del maggiore di essi, Carlo Strozzi, è maestrevolmente delineata e se possono sembrare esagerate le lodi che a lui conferiva l' Ughelli, il quale lo chiamava « l'archivio di tutte le cognizioni, l'archivio di Firenze, l'archivio de l'erudizione di Toscana, il vero archivio della patria», certo a lui spetta gran parte di merito per l'edizione del Compagni. Salito infatti al pontificato Urbano VIII, questi si preoccupò di illustrare il « pedale », come dicevano, del grande albero barberiniano trapiantato sulle rive del Tevere e faceva apprestare dal suo fido Ubaldini, gentile figura di studioso, la compilazione dei Documenti d'Amore e del Reggimento e Costumi di donna di Francesco da Barberino. Lo Strozzi, in affettuosa corrispondenza con Federigo Ubaldini, accettò l'invito di recarsi a Roma per un lungo soggiorno; ed eccolo, nei primi mesi del 1637, armato di un bel bauletto di antichi manoscritti toscani, memorie storiche, documenti, spogli, ecc., alla volta di Roma. Uno di que' « libri vulgari », la Cronica del Compagni, trascritta di sul Codice Pandolfini. Ed ecco il nome dello storico fiorentino affacciarsi, timoroso dapprima, nelle pubblicazioni che veniva apprestando l' Ubaldini. E sarebbe venuta alla luce, tante cure le venivano apprestando lo Strozzi, l'Ubaldini ed altri valentuomini, pur che avesse contenuto un qualche accenno alla lontana origine del. Pontefice morto Urbano VIII, benché altri seguitassero ad occuparsene (notevole una lettera di Cosimo Della Rena) viene messa in disparte, e soltanto se ne fanno degli spogli per il vocabolario dell'Accademia della Crusca.

Intanto i materiali storici in vario modo adunati materialmente ma non senza amore, nel secolo XVII, aspettavano, per sorgere in maestoso edifizio, la mano di un sommo maestro: ed ecco finalmente il Muratori che l'include nel suo Corpus, meravigliato di una cosa soltanto, che cioè i fiorentini avessero lasciato a lui la gloria di tale pubblicazione.2

1 L'autore dell'Italia Sacra mantenne con lo Strozzi una corrispondenza attivissima.

Qualche tempo prima Apostolo Zeno si era in vario modo servito del Compagni per illustrare le rime di antichi poeti.

Giornale dantesco, anno XXV, quad. III.

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Cominciano finalmente nuovi tempi per il nostro storico il Manni uel 1728 provvede ad una ristampa: a Firenze la fama di Dino si rinnova e ingigantisce, e il D. L. ci conduce attraverso le lettere e le conversazioni dei valentuomini del tempo a tutto quel retroscena intorno alla critica sull'antica storia e lingua d'Italia. E piú tardi sorgono i ristora tori del buon gusto, il Cesari, il Giordani, il Perticari, il Monti, il Puoti, il Silvestri, il Niccolini, ecc.; ed ecco le edizioni del Rosini (1818), del Benci (1830), del Carrer (1841), del Folinea, scolaro del Puoti (1845), del Vannucci (1847), ecc., in tutto oltre venti edizioni dal 1818 al '76, per giungere, colmando una profonda lacuna già lamentata dallo Hillebrand, dal D'Ancona, dal Carducci, all'edizione critica, elaborata di sui manoscritti e largamente commentata, che il D. L. veniva apprestando.1

Con la critica storica e letteraria dei nuovi tempi, Dino assurge a ben più alta importanza. Né lo trascurano i dantisti : l'Arrivabene, il Troya, il Fraticelli, il Todeschini, il Tommaseo, il Giuliani si curvano su lui con trepido cuore; il Giordani, il Perticari, il Carducci, il Balbo, il Tosti, Pier Alessandro Paravia, ne rivendicano tutta l'alta importanza. E al libro di Dino chiedeva principalmente la interpretazione storica della Divina Commedia Giuseppe Giusti, quando meditava sopr'essa un commento, o meglio, una serie di studi che la morte interruppe. Malcontento degli espositori, « chi vuole intendere Dante », scriveva, « interroghi Dante medesimo » : e a Dante storico si rivolgeva egli. Poichè ogni uomo, per grandissimo che sia, vive pur la sua vita, anche quella dell' intelletto e del cuore tra i convi venti con lui, non era il caso di andare a cercarlo, a modo del suo Saladino solo in parte', non « spogliato delle sue qualità umane, e fatto oracolo e Dio», ma in mezzo al movimento e al tumulto dei suoi tempi e della sua città e dell' Italia d'allora. Tale l'intendimento degli studi danteschi del Giusti, che il D. L. ricostruisce dalle vestigia che ci rimangono del suo Dante postillato: Né mancano, a conchiudere il volume, il giudizio dei filosofi: il Gioberti, i Rosminiani, il Mamiani; né quello degli storici della letteratura, l'Emiliani Giudici, il Settembrini, il Cantú, il De Sanctis. Anche gli artisti si servono delle pagine dello storico come fonte d'ispi razione il Ciseri per il suo Giano della Bella, il Puccinelli per il suo Dino in San Giovanni. Il movimento suscitato in Italia si corona con la Storia della Repubblica di Firenze di Gino Capponi, ed ha larga ripercussione all'estero ed ecco la traduzione della Cronica, in tedesco, da parte del Dönniges, confortato dal consiglio di Cesare Balbo.

Il volume secondo contiene una rigorosa pole

Milano, A. Bettoni; Lib. I, 1870; Lib. II 1872.,

mica provocata dal tentativo dello Scheffer-Boichorst, che nel 1874, tentò negare non solo l'autenticità ma anche ogni intimo valore alla « Cronaca » del Compagni. Forte delle sue trentennali fatiche, il D. L. ha buon giuoco delle avventate critiche dello storico tedesco e con una serie di argomentazioni storiche, logiche, erudite (preziosi i raffronti grammaticali e le esemplificazioni stilistiche di autori o piú antichi o coevi) stringe vigorosamente e vittoriosamente il suo avversario e con lui quanti supinamente, in Italia e fuori, plaudirono, senza approfondine la portata e il valore, le conclusioni dello Scheffer-Boichorst. Nuoce forse alla vigoria della polemica lo stile sostenuto e l'aver adunato una quantità immensa di elementi accessori per cui il lettore spesso perde di vista, sia pure a sbalzi, il filo della narrazione. Ma se ciò ridonda a scapito dell'efficacia stilistica, lo studioso trova in nudrite e continue serie di note, di raffronti, di ricordi, una preziosa miniera di cui forse soltanto il D. L. poteva trarre e adunare tanti e cosí vari materiali. Rimandiamo pertanto alla lettura dei due volumi perché gli studiosi, siano essi storici, dantisti, glottologi, eruditi, potranno utilmente trovarvi e apprendervi notizie spesso nuove e curiose, interessanti sempre. Quindi più che non la rivendicazione dell'autenticità della Cronica di Dino, dobbiamo ammirare uella fatica del D. L. la sua illustrazione storica e linguistica, vero modello del genere.

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Col nuovo Rerum italicarum muratoriano la Cronica, col commento del D. L., entra definitivamente nel Pantheon' dei nostri storici e l'autore, dopo aver ricordato gentilmente gli amici buoni che furono al suo fianco nei momenti malaugurati (il Guasti, il Gherardi, il Paoli, il Meyer, il Reumont, l'Hillebrand), s'intrattiene, con voluta compiacenza, sulle traduzioni in ungherese, in inglese, in francese, in tedesco che procurarono alle pagine di Dino una larga diffusione anche oltr'alpe. Il nome dello storico è ormai suggellato di grandezza in mezzo a una schiera di contemporanei gloriosi e in Firenze, dietro quella Badia le cui campane han sonato « terza e nona » a Dante giovinetto, che ivi presso aveva le case dei suoi, sulla Torre della Castagna fu posta una memoria, perché quella reverenza medesima che ispirava a Dante le « pietre delle mura» di Roma, circondasse le auguste memorie del luogo e il ricordo dello storico della gloriosa democrazia fiorentina.

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L'autore riproduce anche un suo opuscoletto, scritto nel 1877, in difesa della questione diniana contro la malafede dei suoi avversari, alcuni dei quali seriamente sostenevano esser « la Cronica d'Antonfrancesco Doni, perché 'Doni è anagramma di Dino' e perché Dino contiene in sé, per chi domandi se di Dino' è la Cronica, la risposta 'di no'!», e altre amenità, in due opuscoli: Dino Compagni vendicato dalla calunnia di scrittore della Cronica,' Passatempo letterario e La Metamorfosi di D. C. sbugiardate.

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Per onorare degnamente il Poeta, si era costituito in Ravenna, fin dal 1913, un Comitato Nazionale, con l'intento di provvedere ai lavori di restauro della gloriosa chiesa dantesca di S. Francesco in Ravenna e alla pubblicazione di un Bollettino dantesco. Quest'ultimo ebbe vita fiorente fino al 1921, e molto contribuí, dati i suoi caratteri divulgativi e le belle incisioni di cui ciascun numero era adorno, a diffondere la conoscenza intorno all'Alighieri e a luoghi, fatti e persone che in vario modo all'opera di Dante si riferiscono. Come coronamento della vita del Bollettino viene ora offerto questo « Ricordo », che serve mirabilmente a ravvivare idee e impressioni intorno al Poeta.

Le incisioni, assai numerose, sono corredate di brevi testi illustrativi dovuti a scrittori di chiara fama in essi, in forma sintetica e divulgativa, sono riassunte le cose più notevoli. Nella prima parte sono compresi i ritratti di Dante, nella seconda i luoghi dove il Poeta visse e che visitò, tracciando cosí la sua vita in patria e nell'esilio, la terza riguarda la Commedia e presenta un saggio di quanto l'arte d'ogni tempo produsse sotto l'ispirazione del Poema.

Dati i caratteri e gli scopi della pubblicazione, non si poteva pretendere del materiale sempre inedito, ma si doveva ricorrere a quanto in varie occasioni era stato illustrato e reso di dominio pubblico: pure l'aver adunato con diligenza e distribuito con gusto una notevole silloge figurativa, è merito non piccolo. Inoltre non mancano particolari nuovi e interessanti. Cosí, ad es., nella prima parte è anche riprodotto il presunto ritratto di Dante in San Francesco di Ravenna, dove venne scoperto nel 1918 du rante i lavori di restauro; la congettura non è improbabile, giacché in questa città, piú che altrove, si conservò, il ricordo iconografico di Dante.1 Né manca il particolare della Presentazione, affresco trecentesco di scuola romagnola di S. Maria in Porto Fuori (Nostra Donna in sul Lito Adriano) in cui Dante figurerebbe accanto a Guido da Polenta, né quello dell'abside di Sant'Agostino di Rimini in cui a taluno è sembrato intravvedere il Poeta, coronato di lauro, insieme a due altri personaggi, quantunque non abbia alcuna importanza iconografica. Inoltre G. L. Passerini illustra e riproduce una rara stampa di Girolamo Cok, detto « Cocco Fiammingo », incisore di Anversa (1510-'70) in cui fanno corona a Dante, il Petrarca, il Boccaccio, il Cavalcanti, il Po

Cfr. F. MALAGUZZI-VALERI, Il nuovo ritratto di Dante nel Marzocco, a. XXV, n. 6, 1920; G. GEROLA, Ancora sugli affreschi danteschi scoperti in S. Francesco, Ravenna, 1920 e per tutti P. L. RAMBALDI, Ancora un ritratto di Dante? in Studi danteschi del BARBI, Firenze, Sansoni, 1920, n. I.

liziano e il Ficino. Com'è noto, il Vasari nel 1544 dipinse un Dante in compagnia d'altri poeti, tenendo forse presente il ritratto frescato Taddeo Gaddi in Santa Croce e distrutto nel 1566: della tavola vasariana si trassero delle incisioni; una delle piú rare è questa del Cock di cui il Passerini conserva il terzo esemplare conosciuto (gli altri due sono all'Ariel College di Oxford): quivi in luogo di Cino e di Guittone sono riprodotti il Poliziano e il Ficino. Sfilano poi davanti ai nostri occhi i luoghi degni di ricordo, dalla statua di Marte al Ponte Vecchio sull'Arno, tratta del Codice Chigiano del Villani alla Torre del Gallo, al ricordo marmoreo della Villa già degli Alighieri a Camerata, alla veduta di Firenze tratta dal Codice Laurenziano del Biadaiuolo, della Chiesa di S. Bartolomeo tratto dal Codice Rustichi del Seminario Arcivescovile Fiorentino, all'avanzo del sepolcro di Brunetto Latini nel Chiostro di S. M. Maggiore, ecc. Per il Laterano di Roma si è riprodotta una veduta generale che ci dà un'idea abbastanza netta della basilica, del palazzo papale, del battistero, della torre degli Annibaldi, mentre sullo sfondo si eleva S. Croce in Gerusalemme e l'anfiteatro castrense' e a destra si profila 'S. Stefano rotondo ' e gli acquedotti di Claudio. Una ricostruzione nitida di come doveva essere l'insieme imponente di edifici nel secolo XIV: è strano però come l'autore abbia dimenticata la statua di Marco Aurelio, oggi in piazza del Campidoglio, che ancora nel secolo XV il Lippi in un affresco di Santa Maria sopra Minerva frescava davanti alla Basilica, dove realmente si trovava. Per S. Pietro nel medioevo abbiamo una ricostruzione grafica del Crostarosa e la veduta interna della Basilica tratta da una miniatura di Jean Foucquet che fu a Roma tra il 1444 e il '47, ecc. E cosí via. Le chiese di S. Godenzo, di S. Benedetto in Alpe, l'Acquacheta, il ponte medievale sul Montone, il monastero di Santa Croce a Bocca di Magra, le « Salse », le << Balze », S. Leo, l'Arno « che torce il muso » a Giovi (Arezzo), il castello di Lizzana, ecc. fino alla Villa di Carpineto, presso Pale, dove venne acquistata la carta per la prima edizione del 1472, al portale della casa di Emiliano Orfini a Foligno dove fu stampata la Commedia la prima volta, abbiamo mille ricordi vari che sfilano davanti ai nostri occhi. Né mancano lavori originali: noto un buon disegno di G. B. Conti, Dante in Ravenna, alcune xilografie riproducenti la Chiesa e il Castello di Polenta e il cipressetto di Francesca, ecc. Nel complesso quest' Albo Dantesco, ravvivato da opportune didascalie del Biagi, del Crispolti, del Del Lungo, del D'Ovidio, del Galletti, del Mazzoni, del Misciattelli, del Pietrobono, del Ricci, del Salvadori, dello Zingarelli, ecc., è un bel volume che riteniamo non indegno di comparire tra i dotti e magnifici pubblicati nell'anno memorando e destinato anch'esso a rendere sempre piú famigliare la figura del Poeta.

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