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Aggiungeremo in fine che di questa sua compartecipazione alla società dei Peruzzi nel 1300, ci rimane testimonianza del Villani stesso. In un Ricettario del secolo XIV contenuto nel cod. Riccardiano 2154 a c. 134 r. vi è anche la seguente:

"Questo è il nobile et sourano inpiastro แ assanare ogni infermità di tagliatura e di "chottura e perchossa et spezialmente di "chapo, se non è sotto il panno del cieruello. "Il quale io giouani Villani ebbi lanno MCCC0 "dafirate bonifazio da Galamandrana grande "ghouernatore del maggiore dello [sic] Spe"dale di Gierusalem tornando egli doltremmare essendo la compagnia de. peruzi suoi "merchadanti alla quale io anchora ero con

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pagnio. E disse questo frate che l'ebbe dal "Re derminia il quale gli disse che aveva "piu chara questa ricietta chella migliore " città chegliauesse; eio nebbi lachopia la "quale sta in questa forma „.

E segue la ricetta, che risparmieremo al lettore, limitandoci a dire che in essa come ingredienti entrano anche, oltre il resto, del vino finissimo di Grecia, della trementina e "una terzeruola di latte di donna, o almeno due bicchieri,; che si prescrive per preparare il tutto "uno chalderotto stagniato di nuouo o... un teghame vetriato nuouo „; e che si termina con questa raccomandazione: "Et nota che affare detto inpiastro vuole buona praticha essollecitudine e buona ghuardia di fummo o di troppo o spesso fuocho, ma temperato esenpre mestando sanza attendere ad altro,.1

Orbene, cosa si può ricavare da questi dati, che faccia al caso nostro, in cui si tratta

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1 Dell'autenticità di questa ricetta non abbiamo nessun diritto di dubitare. Che il Villani nel 1300 fosse socio dei Peruzzi, è stato già dimostrato. Circa "Bonifacio di Calamandrana Gran Comendatore degli Hospitalieri di qua dal mare che dal 1294 in poi fu alla corte papale, prima di Celestino V, poi di Bonifacio VIII, che lo adoperarono in diverse ambascerie ed uffici diplomatici, e che il Villani poté vedere in Roma quando v'andò pel Giubileo vedi JACOMO BOSIO, Dell'Istoria della sacra religione et Ilma Militia di San Giovanni Gierosolimitano parte seconda, Roma, 1629 all'indice dei nomi. E che in realtà i Peruzzi fossero suoi "mercadanti,, o banchieri, vedi nel cit. cod. Riccardiano 2414 c. LVIII (antica segnatura) l'atto di scioglimento della società dei Peruzzi sotto il 4 novembre 1308: in essa fra le altre partite che non si poterono saldare per la insolvibilità dei debitori della compagnia si nota: "E rimase ametere in saldo la ragione dibenciuenni folchi, cauea tenuta intorno del maestro delo spedale „.

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di vedere quando presso a poco sia nato il Villani? La rubrica XLII del citato Statuto dell'Arte del Cambio (De non contrahenda sotietate cum aliquo qui iuratum non haberet pro Magistro) proibisce a qualunque membro dell'Arte di contrarre società con chi non avesse prestato giuramento come Maestro dell'Arte medesima e ciò pena cento soldi di multa e la rescissione, dentro il termine d'un mese, del contratto sociale. Ma al grado di maestro si arrivava dopo dieci anni, cinque di discepolato presso un Maestro, durante i quali bisognava servire lodevolmente l'Arte e cinque come cambiatore attivo. Ecco cosa dice la rubrica LXI (De eo qui iurauerit pro discipulo), che per la sua brevità ci facciamo lecito di riportare per intero: "Nullus, licet pro discipulo iurauerit, possit sotietatem "propterea facere cum aliquo huius sotieta"tis, nisi prius artem per quinque annos ser" uiuerit et nisi prius pro magistro, post annos quinque, iurauerit et nisi ante esset "ad artem suffitiens, saluo capitulo de filiis " fratribus et nepotibus campsorum,, i quali erano ammessi come soci del rispettivo padre, fratello, e zio, solo che avessero compiuto 15 anni. E dalla rubrica XLVI (De faciendo iurare qui non iurauerint) risulta che coloro che avevano servito l'arte come discepolo durante cinque anni continui, erano di diritto esenti dalla tassa di soldi cento, che ogni cambiatore era tenuto a pagare all'atto di prestare il giuramento che doveva farlo entrare, come membro, nell'arte, ma che anche intorno ad essi valeva la clausola: 66 non pos"sint consules uel eorum notarius aliquem "recipere ad consortium huius Artis nec pro

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eo aliquod tenere consilium si est recipien"dus nel non, nisi ille talis publice sederet ad tabulam et banchum cum tascha et libro "ad hanc artem exercendam, et hec habeant "locum a kalendis Januarii in antea sub an- . "nis dni 1292....,. Dal che dunque appare che coloro i quali avevano servito cinque anni l'arte come discepoli, diventavano cambiatori effettivi.

Ora, quanti anni avrà potuto avere il Villani, quando entrò, come discepolo, nell'arte ? Ogni discepolo abbiamo visto, doveva prestare, nell'atto di entrare a far parte dell'arte, il giuramento di fedeltà e di obbedienza; e il Diritto Canonico, di cui il giuramento, come il matrimonio, erano di esclusiva pertinenza, ordinava che i "pueri ante annos

quattuordecim non cogantur iurare,.1 E aggiungendo a questi quattordici i dieci anni di tirocinio come discepolo e come cambiatore effettivo, richiesti per ottenere il titolo di Maestro dell'Arte, necessario a chi volesse entrare a far parte d'una società bancaria legalmente riconosciuta, abbiamo che questo tale doveva avere almeno 24 anni d'età. Il Villani quindi, che nel 1300 troviamo socio di una società bancaria il cui capo ed i cui membri nonché non essere suo padre o suo fratello o suo zio non avevan con lui nessun legame di parentela, doveva almeno essere nato nel 1276.

Ed ecco cosí tolta di mezzo anche quella troppo grande differenza d'età fra e Dante Giovanni, che all'Imbriani fa sí grande ostacolo. E da tutto questo poi risulta che l'amicizia fra il cronista e il Poeta non è storicamente impossibile, e che non sarebbe quindi sana critica il rigettare a priori quella testimonianza che ce ne venisse pôrta. La quale è tempo ormai che noi passiamo a considerare.

III.

Come abbiamo ricordato, si tratta di poche righe che si trovano nel cap. XXII della prefazione che Filippo Villani, nipote di Giovanni, manda avanti al suo Comento al primo Canto dell' Inferno, capitolo che è intitolato Cur noster comicus opus suum materno sermone dictauerit. Ivi dopo di aver tradotto o ridotto dal noto paragrafo della biografia boccaccesca Perché la Commedia' sia stata scritta in volgare, come ognuno può facilmente riscontrare, egli continua: "Audi"ui, patruo meo Johanne Villani hystorico referente, qui Danti fuit amicus et sotius, "poetam aliquando dixisse, quod, collatis ver"sibus sui cum metris Maronis Statii Oratii "Ouidii et Lucani, visum ei fore iuxta purpu"ram cilicium collocare,.

Della sincerità di questa informazione non abbiamo nessuna ragione di dubitare. Giudicando cosi, come si dice, per impressione, si potrebbe avere il sospetto che Filippo dicesse il suo zio amico del Poeta, non già perché ciò fosse vero, ma solo per sentimento di vanità e per il pensiero dell'onore che da quell'amicizia si sarebbe riflesso su tutta la famiglia dei Villani: sicuro d'altra parte che

1 Decreti Secunda Pars, Causa XXII, Quaest. V, c. 15 (Ante quatuordecim annos nullus iurare cogatur).

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nessuno avrebbe potuto controllare la verità della sua asserzione, mentre tutto, e la contemporaneità, e la vicinanza dell'abitazione, e la rubrica dantesca dello zio, la rendeva verosimile. Ma chi consideri la cosa piú davvicino, e non abbia la negazione per sistema, dovrà convenire che il sospetto non ha nessuna ragione di esistere. Se Filippo avesse davvero tenuto piú che a tutto il resto, a far credere ad un'amicizia fra Dante e suo zio, non solo egli ne avrebbe espressamente parlato nel suo De Vita et moribus Dantis, dove pure, l'occasione gliene era pôrta cosí naturale, accennandovi egli a' suoi maggiori, come coloro da cui si ricordava d'aver udito molte cose intorno a Dante, ma anche, nel luogo del Comento che ora c'interessa, egli avrebbe esposta la cosa in modo differente. Egli avrebbe cioè maggiormente insistito su questa amicizia, l'avrebbe infiorata di quei luoghi comuni, che la sua arte di retorico gli forniva a dovizia, o, per lo meno, avrebbe espresso detta amicizia non già mediante una proposizione affatto incidentale che, tolta, non turberebbe per nulla il senso del resto, ma mediante una proposizione principale, forma naturalmente corrispondente a quell'importanza capitale che per il presunto sentimento di vanità del Villani, aveva per costui detta amicizia. Non ci pare quindi che vi possa essere dubbio: la cosa che nel brano ora discusso, piú preme a Filippo, sono quei certi particolari su Dante e sui suoi tentativi non riusciti di imitare, scrivendo in latino, i grandi scrittori della latinità, e per accreditare presso i suoi, o uditori o lettori che fossero, le sue parole, ne riferisce la fonte, la cui autorità bastava di per sé a mettere in silenzio quelli, se pur ce ne fossero stati, che ne avessero dubitato.

Messe però le cose in questi termini, quell'ideale avversario incontentabile, che ogni buon critico dovrebbe aver sempre presente, potrebbe dubitare della sincerità delle parole di Filippo, movendo le sue obiezioni da un altro lato. Potrebbe cioè obiettare se non fosse il caso di pensare che quegli stessi particolari su Dante, compresa quindi indirettamente anche la relativa proposizione inciden

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tale riguardante la sua amicizia col Villani, fossero tutta una falsificazione di Filippo, che si potrebbe supporre spinto a inventar notizie false, dal desiderio di far vedere che egli aveva intorno a Dante notizie che non si potevano trovare altrove. Ma e nessun'altro movente, dato il punto a cui siamo giunti colla discussione, potrà essere escogitato per la presunta falsificazione di Filippo sarà troppo difficile trovare una risposta soddisfacente ad una cosiffatta obiezione. Anzitutto riescirebbe bene strano che, se egli | avesse davvero avuto questo desiderio di parer bene informato rispetto a Dante, non si trovasse altro esempio che questo, presso lui, da avvalorare la presunta esistenza di un tal desiderio. Ricordiamolo un'altra volta; egli scrisse una biografia di Dante, dove per questo riguardo non lo possiamo davvero trovare in fallo; e d'altra parte come mai, per far credere ad una sua più profonda informazione circa i casi del divino Poeta, avrebbe egli scelto un periodo nascosto d'un capitolo della prefazione al suo Comento? O in altre parole, perché il desiderio di parer piú informato gli venne soltanto in occasione di quel punto specialissimo della storia di Dante che riguarda i suoi tentativi di scriver | latino? Tutte domande queste, come ognun vede, che sono destinate a non avere risposta alcuna, tanto più poi se si aggiunga alle altre quest'ultima considerazione. Filippo ammirava, anzi venerava Dante, non c'è bisogno di dimostrarlo; ponendosi quindi di proposito ad inventar notizie sopra di lui, era naturale che egli fosse portato a mettere insieme tali particolari, che riuscissero sempre a maggior lode di Dante. Ora, neanche a farlo apposta, la notizia che egli ci dà intorno a Dante nel brano da noi discusso, in sé e per sé è tale che non riesce a troppo onore del Poeta, il quale ne risulta poco abile nello scrivere latino. E si noti che Filippo si trovò a commentar Dante proprio nello stesso tempo, a cui è ascritto il noto dialogo ad Petrum Paulum Istrum del Bruni, nel quale i corifei del nuovo movimento letterario si scagliano senza riguardo, anzi con la piú irriverente veemenza, contro le tre corone, Dante compreso, a cui precisamente si

1 Per quel che riguarda i particolari da lui dati circa l'ambasceria di Dante a Venezia vedi le assennate osservazioni di O. ZENATTI in Dante e Firenze, pag. 82, n. I, verso la fine.

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ascrive a difetto l'imperfettissima cognizione, quando non sia addirittura ignoranza, degli scrittori greci e latini. Ora, chi può immaginare che Filippo Villani, il quale come uomo colto (helyconico viro, lo chiama il noto decreto che l'elegge alla lettura di Dante), non poteva disinteressarsi del nuovo indirizzo letterario e ignorare quali fossero gli umori dei novatori, ponendosi a inventare notizie su Dante, ne inventasse per l'appunto di tali, per cui il Poeta potesse prestare il fianco a nuovi obiezioni, a nuovi assalti?

Ripetiamolo dunque, la sincerità e la buona fede dell'informazione di Filippo ci sembra non possa essere messa in dubbio. E potremo ora avanzare il dubbio che possa avergli lo zio raccontata una cosa non vera? Non ci pare possibile, perché quel solo motivo di una tal menzogna da parte dello zio al nipote, che si può ragionevolmente addurre, ossia il desiderio vanitoso di farsi credere amico di un uomo illustre e in grado quindi di poter dare notizie non conosciute su di lui, abbiamo già visto non potersi ammettere nel Villani, che pur avendo una cosí opportuna occasione nella sua rubrica dantesca di far pompa ostentata dell'amicizia col morto Poeta, non accenna ad altro che alla vicinanza delle sue case con quelle di lui.

Tolto cosí ogni dubbio possibile sull'amicizia fra Dante e il Villani, sarà da vedere quali ragioni possono aver contribuito a fare stringere fra i due uomini quell'amicizia. Non esitiamo ad affermare che essa si dovesse anzitutto a quella vicinanza delle rispettive abitazioni, a cui come abbiamo visto il Villani stesso accenna colle sue parole: "e nostro vicino,,. È ben vero che secondo l'Imbriani, il quale dà alla parola vicino, per restrizione del suo significato di abitante della stessa città, quello piú limitato di abitante dello stesso sesto, il Villani in esse verrebbe semplicemente a dire che egli e Dante abitavano nello stesso sesto. Senonché né questo significato della prola vicino ci è confermato da nessun altro esempio chiaro e sicuro, né ci pare che vi sia bisogno nel no

1 Cfr. il nostro lavoro Storia dell'Accademia Platonica di Firenze, Firenze, 1902, pag. 192 sgg. e 222.

2 Era, invece, con significato analogo, la parola "convicinus,. Come infatti c'informa PIETRO SANTINI Studi sull'antica costituzione del Comune di Firenze. Firenze 1903 p. 25, i popoli o parrocchie si dividevano alla loro volta in contrade o vicinanze, e queste in famiglie o casate; per cui quando i nunzî giudiziarî do

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stro caso speciale di ricorrere a spiegazioni recondite e non naturali. Intanto eran vicini i due popoli o parrocchie, come diremmo noi, di san Procolo e di san Martino, dove abitavano rispettivamente il Cronista e il Poeta; eppoi siccome il Villani aveva le sue case nella cantonata del palazzo già Borghesi, dalla parte di via Pandolfini, risulta non solo esser vero quello che già fu osservato, che cioè egli distava dalle case degli Alighieri per poco più d'un trar di balestra, ma anche che i due abitavano in quella che potremmo chiamare la stessa strada, giacché, come ognun sa, via Pandolfini e via Ricciarda (ora Dante Alighieri), dove è la casa di Dante, sono l'una la continuazione diretta dell'altra. Ora bisogna proprio aver lo spirito della negazione che ha l'Imbriani, per non parlare in tal caso di una vicinanza, intesa nel senso piú ovvio e comune.

Ma una tale vicinanza, nessuno lo contesterà, implica necessariamente che il Villani e l'Alighieri dovettero conoscersi ben presto. Anche ai nostri tempi, nei quali, per le cambiate condizioni di vita, è pur cosí facile il frequente mutarsi e rinnovarsi degli abitanti nei varî quartieri d'una città, chi di noi, dopo un certo tempo, non finisce per conoscere, almeno di vista, tutte le persone che ci stanno vicine nella strada dove noi abitiamo? Del resto Giovanni, che esercitò l'arte del cambio fin da giovane, come noi abbiamo veduto, chissà quante volte al giorno sarà passato davanti alla casa di Dante, che si trovava appunto sulla strada che dalla casa paterna conduceva direttamente e in Or San Michele e in Mercato Vecchio e in Mercato Nuovo, dove erano le tavole dei banchieri e cambiatori! E viceversa Dante, oltre che per altre cause che non possiamo determinare, chissà quante volte sarà passato davanti alle case dei Villani per andare a visitare i beni che la sua famiglia possedeva nel popolo di sant'Ambrogio in via delle Badesse, 2 alla quale mette direttamente via dei Pandolfini!

vevano fare le citazioni, era loro ordinato di fare il bando domi, convicinis, et ecclesie. Ma di questa vicinanza non possiamo tener conto ora, perché essa presuppone la coabitazione nel medesimo popolo, mentre Dante e Giovanni abitavano in popoli diversi.

1 EMILIO FRULLANI e GARGANO GARGANI, Della Casa di Dante, Firenze, 1865.

2 Che Dante possedesse case nel popolo di Sant'Ambrogio lo si sapeva già (cfr. FRULLANI-GARGANI, Della casa di Dante cit., p. 44 e nota 1): per quel che ri

Dunque i due si dovettero conoscere presto; non dice d'altra parte lo stesso Dante nel Convito che la maggior parte dell'amistadi si paiono seminare in questa prima età „, ossia l'adolescenza, che termina al 25° anno? "Perocché in essa spiega immediatamente dopo il Poeta comincia l'uomo a essere grazioso....: la qual grazia s'acquista per soavi reggimenti che sono dolce e cortesemente parlare, dolce e cortesemente servire e operare, (IV, 25). Ora, dei cortesi servigî reciprochi che poterono avvincere i due giovani, nulla sappiamo; qualche cosa invece, mercé le parole di Filippo, sappiamo, per quel che riguarda i dolci e cortesi discorsi che Dante e Giovanni ebbero occasione di fare insieme. La poesia era tema di quelle conversazioni, in una delle quali il Poeta della Vita Nuova ebbe a dire al giovine cambiatore che paragonando i suoi versi latini con quelli di Marone, Stazio, Ovidio e Lucano, gli pareva di mettere un cilicio accanto a della porpora. Questi versi latini, senza dubbio esametri, erano forse quelli con cui il Boccaccio ci dice che Dante cominciasse a stendere il suo Poema? Non vogliamo per ora entrare in questa intricata questione; basti a noi il notare qui che il Poeta divino non parlava, nel Villani, a persona ignorante di poesia latina, e tutti ricordano a questo proposito che costui già nel 1300, quando si recò “in quello benedetto pellegrinaggio nella santa città di Roma, aveva letto "le storie e grandi fatti de' Romani, scritti per Virgilio, e per Sallustio, e Lucano, e Titio Livio, e Valerio, e Paolo Orosio, e altri maestri d'istorie, anzi li studiò poi cosí profondamente da prendere

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guarda la loro ubicazione in via delle Badesse, non si era posto fin qui mente a un documento pubblicato in sunto da S. L. PERUZZI, Storia del Commercio ecc. cit., p. 525, che si trova nel Libro d'Arnoldo di Giotto Peruzzi in Riccardiana: "[Ricordanza che io Arnoldo fu d'arnoldo amidei peruzzi] chomperossi a comune co' detti tomaso e giotto de' peruzzi per terza parte una casa posta nel popolo di Sa' Jacopo tra le fosse da lerede di p[ier?] di donato de le saccha, costò in tutta libre seicento di pic[coli?]. E comperossi dalerede di renzo passauante uno pezo di tereno posto a la crocie a ghorgo nel popolo sancto ambrugio. E comperosi da francescho allaghieri uno casolare e uno pezzo di terreno posto nel detto popolo ne la uia dele badesse, costaro da libre dugiento a fior. E costò in conciatura la casa del detto donato e quella che fue di maestro bindo libre ciento venticinque a fior.o Montaro in tutto per la terza parte die kalen luglio anno 1312 in fiorini, i quali de paghare tomaso peruzi e conpagni....„

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(come Dante?) "lo stile e forma da loro, (VIII, 36 delle Croniche).

Altri argomenti verrebbe fatto di congetturare, e con molta probabilità, che avesser dato materia ai discorsi amichevoli di Dante e Giovanni, quelli stessi cioè che vediamo poi esser diventati meravigliosa poesia nell'uno e ben ragguagliata ed efficace prosa nell'altro: ma è meglio non lasciarsi andare

su questo pericoloso sentiero delle congetture, e ci terremo paghi ad esuberanza, se potessimo coi dati di fatto fin qui raccolti, avere indotto anche gli altri nella nostra persuasione di una amicizia giovanile fra il più grande Poeta e il più grande Cronista di Firenze.

Firenze, 1904.

ARNALDO DELLA TORRE.

QUESTIONI DI ICONOGRAFIA DANTESCA*

I.

LA VERA EFFIGIE DI DANTE (Lettera aperta al prof. P. Papa)

Mio carissimo,

Permettimi che anche pubblicamente, a nome degli amici e mio, ti ringrazi della bella e arguta conferenza che, con tanta cortesia, hai consentito di venire a tenere presso questo nostro Comitato della Società dantesca. Ma poiché t'è piaciuto d'accennare pur a quel poco che circa la vera effigie del nostro sommo Poeta io avevo avuto occasione di scrivere (e l'avevo prima detto, nella prolusione al mio insegnamento milanese, undici anni or sono!), permettimi altresí questa postilla.

Nell'assistere a tutta la lunga sfilata dei ritratti danteschi, nelle riuscitissime proiezioni tue, io pensavo che, in fondo, essi si potrebbero tutti, o quasi, ridurre a due tipi: quello d'aspetto giovanile, di scuola giottesca, frescato sulle pareti del palazzo del Bargello; e l'altro, rappresentante il Poeta nella piena maturità degli anni, del busto donatelliano conservato nel Museo di Napoli. Ma questo secondo, per quanto artisticamente bellissimo, non direi che supponga una ma

* La lettera del prof. Michele Scherillo, alla quale dètte occasione la conferenza su I ritratti di D., fatta da Pasquale Papa la sera del 5 marzo nell'Aula magna della regia Accademia scientifico-letteraria milanese, fu pubblicata nella Perseveranza del 12 marzo 1904; la risposta del prof. Papa vide la luce nel no. 1 del 22 marzo del medesimo periodico. Ora i miei due cari e valenti amici, consentendo alla mia preghiera di ripubblicare i notevoli loro scritti nel Giornale dantesco, hanno fatto ad essi qualche utile ritocco e una piccola aggiunta. IL DIRETTORE.

schera presa a Ravenna sul cadavere. Non saresti certo disposto a supporlo neanche tu, che contro l'autenticità, anzi la possibilità. delle maschere dantesche, hai una preconcetta avversione, forse un tantino eccessiva. Potrebbe però supporlo altri, ricordando altri busti e statue, collocate, circa quel tempo, sui monumenti funebri. Il nostro Novati, ad esempio, mi suggerisce quelle di re Roberto, nella chiesa di Santa Chiara a Napoli.

L'importante busto napoletano mi ha tutta l'aria d'un'opera riflessa d'un artista valoroso (l'attribuzione a Donatello non guasterebbe !): il quale abbia voluto, e saputo, trasformare, per cosí dire, il rimatore giovane e sospiroso della Vita Nuova, quale lo dava l'affresco della cappella del Podestà, nell'accigliato ed austero Poeta della Commedia, quale era lecito immaginarselo. Avremmo cosí, con quel mirabile bronzo e con l'intera serie dei ritratti che gli si rannodano, un Dante di fantasia; non il Poeta quale fu realmente nel momento piú cospicuo della sua vita, ma un Dante quale, nell'ispirazione d'un artista, il Poeta della Commedia sarebbe potuto o dovuto essere. La commossa ammirazione del Carlyle per quel viso, ove egli leggeva tanto accoramento e tanta misteriosa speranza, sarebbe l'alto riconoscimento che quell'opera d'arte è riescita efficace interprete della coscienza e del desiderio di tutti. Dante non poteva avere che quell'aspetto; allo stesso modo che Omero, nonostante le interminabili discussioni dei critici sulla sua reale esistenza, non ha, nella coscienza artistica universale, se non quelle fattezze, olimpicamente serene, che anch'esse s'ammirano in un altro busto del Museo napoletano.

Sennonché son proprio le fattezze di Dante

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