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negare il merito d'aver avviato il problema a buona soluzione, riconoscendo che « la parola spirito copra un individuo storico », che « quello spirito infelice fosse noto a Virgilio, o, per meglio dire, che fosse a lui nota l'innocenza di quello spirito »; e che Dante sapesse ciò dall'Eneide; però, oltre che non ci spiega il perché della storiella (del resto, neppure il Piersantelli e il Busnelli ce lo spiegano), il suo Palamede non è accettabile, per una ragione a cui né il Fransoni né i suoi critici han badato: chi trasse dal cerchio di Giuda Palamede, cioè n'asseri l'innocenza, non fu Virgilio, ma Sinone; e Sinone è tipo di mentitore, come Dante stesso riconobbe. Giammai, dunque, avrebbe Dante creduto che le parole attribuite da Virgilio a Sinone fossero da considerare né piú né meno che come pronunciate, in proprio nome, da Virgilio. E lo stesso errore, mi sia permesso il dirlo, in cui cadono tutti i dantisti non i soli dantisti astronomi, ritenendo che Dante avesse, per bocca d'un Malacoda, inteso di svelarci il proprio pensiero sulla tanto dibattuta quistione dell'anno della morte di Cristo. 1 Ma Sinone dice il vero, sul conto di Palamede! Non importa: Virgilio non avrebbe mai considerata come sua propria un' impresa, per la quale avea delegato un Sinone.

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L'ipotesi del Piersantelli è stata confutata dal Busnelli, con più argomenti, forse, che non sarebbero stati necessarii per ricacciar Satana nel cerchio di Giuda: non resta, dunque, che l'ipotesi del Busnelli stesso, Cinna. Innanzi tutto, anche ammettendo che Cinna fosse meritevole della Tolomea, che sola ha il vantaggio che tutti sanno; non della Giudecca, ove son puniti i traditori dei Re, e per la quale Dante non parla di cotal vantaggio, onde parrebbe arbitrario il presumerlo; anche ammettendo ciò, il tradimento di Cinna, e lo riconosce lo stesso padre Busnelli, « sebbene ordito, non era peranco stato messo ad effetto »: or Dante, teologo, e, se non proprio penalista, certo non digiuno di diritto penale, non poteva non far la debita differenza tra reato tentato e reato consumato. Ma appunto per questo, replica il Busnelli, Cinna scese nella

1 Cfr. i miei Nuovi studii su Dante (Città di Castello, Lapi, 1911), pp. 433-435

Tolomea, non nella Giudecca. Ah! no: l'essere stato soltanto tentato, non fa sí che il tradimento di Cinna cambii specie; e che, da tradimento della più alta autorità temporale, diventi tradimento de' consanguinei e de' commensali con costoro « esser non deggio », avrebbe potuto dir Cinna, se fosse stato messo coi traditori della Tolomea. In secondo luogo, quanto tempo sarebbe dovuto rimaner Cinna in Cocito? certo, assai poco; forse, appena qualche giorno; ché, súbito dopo deprehensus allora il carcere preventivo non durava mesi ed anni, come oggi, — Augusto lo chiamò a sé, gli fece quel bel discorso che Senecariferisce, e lo ebbe amicissimum fidelissimumque: Cinna, dunque, si pentí súbito del suo tentativo di tradimento; sicché, anche súbito il suo spirito sarebbe dovuto tornare al corpo: riconosce lo stesso Busnelli che « la legge della Tolomea, non può essere, per sé stessa, quanto all' eterna dannazione, una legge assoluta »; ma dev'essere condizionata a ciò, che duri, fino alla morte del corpo, il perseverar dell'anima nella colpa. Invece, Cinna sarebbe rimasto in Cocito ben quattro anni, quanti ne corsero dal suo tentato tradimento alla morte di Virgilio. Infine, ammesso per ora la dimostrazione, ripeto, verrà dopo, che le parole attribuite da Dante a Virgilio sieno un parlar figurato; che altro possono esse significare, se non che Virgilio aveva già descritto l'Inferno, ed asserita l'innocenza d' un traditore? Ma in quella descrizione, di Cinna non si fa, né si poteva far motto; onde sarebbe stata una strana pretensione questa di Dante, che noi identificassimo con Cinna lo spirito che Virgilio trasse dal cerchio di Giuda.

2

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Alla prima e alla seconda obiezione, il Busnelli potrebbe replicare: hai detto tu stesso, a proposito del Fransoni, che la figura né può né deve convenire, con matematica precisione, alla cosa figurata: perché, dunque, cerchi la precisione matematica nell'ipotesi mia? - Perché la ipotesi del Fransoni non esclude quel che dev' essere la base della vera interpetrazione, cioè che le parole di Virgilio sulla sua

De clementia, I, 9.

2 A quanto narra Seneca, Cinna tentò il tradimento quando Augusto aveva quarant'anni, cioè nel 23 a. C., essendo Augusto nato nel 63; e Virgilio mori nel 19.

prima discesa all' Inferno sono un modo poetico d'esprimersi, un parlar figurato; ma ben lo esclude la vostra. Né, infatti, potevate non escluderlo, senza riconoscere che, in quelle parole, Virgilio accenna a un traditore, di cui aveva parlato nell' Eneide: or questo riconoscimento vi avrebbe súbito portato alla conclusione che il vostro Cinna era da scartare.

Ciò premesso, a una nuova ipotesi sullo spirto del cerchio di Giuda non si dovrebbe far mal viso, se non da chi, o per poca fiducia nell' intelletto dei dantisti, o per una falsa idea di quello di Dante, s' ostinasse a ritenere che i cosiddetti enigmi danteschi sien proprio insolubili: opinione sciocca, perdoni chi l'accoglie; e, in ispecie per Dante, sommamente oltraggiosa.

Per le accurate indagini degli eruditi, possiamo ormai affermare con sicurezza, che di una discesa di Virgilio all'Inferno non è traccia nelle leggende medievali: essa è, dunque, un'invenzione di Dante, una sua storiella, come direbbe il D'Ovidio. Ma a che quest' invenzione? Lo scopo di rassicurare l'alunno spaventato dalla resistenza dei piovuti del cielo, è evidente (« ben so il cammin, però ti fa securo »); ma questo non è che il senso letterale, la menzogna; onde non basta a darci la ragion vera di tal invenzione: questa ragione non può darcela che il senso allegorico, cioè il vere, che nella menzogna è nascosto. E il senso allegorico è: Virgilio e Dante son respinti, alla porta del sesto cerchio, dalla resistenza dei demonii: questa è cosi diabolica, che lo stesso Virgilio, per un istante, ne al-, libisce; egli però torna súbito padrone di sé stesso; e conforta Dante, con l'annuncio, che già un miracoloso aiuto è vicino. A quest'annuncio, Dante gli chiede:

In questo fondo della trista conca
discende mai alcun del primo grado,
che sol per pena ha la speranza cionca?

Questa quistione di Dante, che vien súbito dopo un annuncio cosi importante, qual è quello d'un aiuto miracolosa non può a que sto non riferirsi, se anche, a prima vista fac cia l'impressione che si riferisca ad altro: le dimande di Dante, in generale son sempre perfettamente a proposito; in particulares

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questa non si riferisse all' annuncio di Virgilio, Dante mostrerebbe d'aver accolto con indifferenza quell'annuncio, di non aver dato al miracolo tutta l'importanza che meritava; e ciò non è ammissibile; infine, non può essere senza un perché quella perifrasi, alcun del primo grado, che sol per pena ha la speranza cionca », a indicare gli antichi spiriti del Limbo. La quistione di Dante, dunque, suona cosí: chi ha una speranza cionca, debole, come quella che voi, o antichi spiriti del Limbo, avete; chi, insomma, non ha la vera e propria speranza, la virtú teologale, che si riferisce non solo al bene, ma anche all'aiuto per conseguirlo, come può sperare in un aiuto miracoloso? E Virgilio:

Di rado

2

incontra . . . . . che di nui
faccia il cammino alcun per quali io vado.

Ver è ch'altra fiata quaggiú fui,
congiurato da quella Eriton cruda,
che richiamava l'ombre ai corpi sui.

Per intendere il senso allegorico di questa risposta di Virgilio, bisogna prender le mosse da taluni luoghi gemelli del Poema. Quando, innanzi alla rovina del settimo cerchio Virgilio dice:

l'altra fiata ch'io discesi quaggiù sul basso Inferno, questa roccia non era ancor cascata ;

che cosa egl'intende, se non, che nell' Eneide, e precisamente nel sesto libro, ove avea cantato il regno de' morti, non avea potuto parlare di quella rovina, per aver egli scritto e per esser vissuto alquanto prima che quella roccia cadesse? E quando nella quinta bolgia dell'ottavo cerchio, dice a Dante,

non temer tu, ch' io ho le cose conte,
perché altra volta fui a tal baratta,

non è evidente che Virgilio accenni ai versi 021-222 dello stesso lib. VI dell'Eneide,

Vendidit hic auro patriam, dominumque potentem imposuit, fixit leges pretio atque refixit;

per dire che anch' egli, nel suo Inferno, aveva punita la baratteria? E quando Stazio dice

Cit i miei cit. Nacri studii su Dante, pp. 91-100. *C. SAN Tox., Samm. theol., II, II, 17, 4

che condusse i Greci ai fiumi di Tebe, c'è alcun dubbio ch'ei voglia dire d'aver cantata la guerra di Tebe? è vero che qui aggiunge poetando; ma anche senza questo gerundio la metafora sarebbe stata intelligibile. Che piú ? Dante che scende all' Inferno, monta al Purgatorio, vola al Paradiso, che altro intende, se non che canta i tre regni d'oltretomba? Allo stesso modo, adunque, il senso allegorico della risposta di Virgilio non può esser che questo: noi antichi abbiam poco trattato dello stato delle anime dopo la morte; ma io n' ho trattato, nel libro sesto della mia Eneide; sicché, se non ho la speranza, nel senso teologico, ho, in cambio, l'esperienza, che della speranza quale passione, ben inteso - è causa, 1 e che diminuisce il timore. 2

Però, se la risposta di Virgilio si fosse arrestata qui, al v. 22 (« ver è ch'altra fïata quaggiú fui »), Dante, coerentemente al senso letterale, avrebbe potuto replicare: Ma come? io scendo all'Inferno per virtú della grazia ; e dalla grazia è a te concesso il nuovo ufficio d'accompagnarmi; ma l'altra volta come ci scendesti? allora non era ancor venuto il tempo della grazia. Or a questa possibile quistione di Dante precorre Virgilio coi versi che seguono, cioè con la storiella degli scongiuri d' Eritone. Con la quale storiella, senza nuocere al senso allegorico del v. 21 (« ver è ch' altra fiata quaggiú fui ») Dante giustifica, dal punto di vista del senso letterale, la prima discesa di Virgilio all' Inferno; non allontanandosi dalla tradizione biblica, secondo la quale l'anima d'un morto può prender parte alle faccende dei vivi, per opera degli angeli buoni, non meno che dei cattivi: infatti, di Samuele, apparso a Saulle, mercé gli scongiuri d'una pitonessa, san Tommaso scrive <apparuit per revelationem divinam », oppure illa apparitio fuit procurata per dae

mones ».

3

Ma Virgilio continua:

Di poco era di me la carne nuda,

ch'ella mi fece entrar dentro a quel muro per trarne un spirto del cerchio di Giuda.

1 SAN TOMMASO, op. cit., I, II, 40, 5.

Op. e p. cit., 42, 5, ad I.

3 Re, I, 8.

Op. cit., I, 89, 8, ad 2. Cfr. pure il cit. studio

del Busnelli.

Qui, e specialmente nel primo verso di questa terzina, è forse la ragione che gl' interpetri non abbian sospettato, o, sospettandolo, si sien guardati bene dal manifestare il lor sospetto, che la prima discesa di Virgilio s'avesse a intendere come un' allusione al libro sesto dell' Eneide, ove Virgilio aveva descritto l'Inferno: infatti sorge spontanea l'obiezione: Virgilio, dunque, avrebbe scritto il libro sesto dell' Eneide poco dopo la morte ? Data la necessità di ricorrere ad Eritone, per giustificare il senso letterale della prima discesa di Virgilio all' Inferno; poiché Eritone, per richiamar l'ombre ai loro corpi, si serviva di trapassati da poco tempo, era naturale che la data di quella discesa dovesse fissarsi a poco tempo dopo la morte di Virgilio. Ma ciò s'accorda mirabilmente col senso allegorico. Tutti sanno che l'Eneide non ebbe dal suo autore gli ultimi ritocchi; e ch' ei voleva perfino che fosse data alle fiamme; sicché, non da lui, ma dai suoi amici, Tucca e Vario, a cui la lasciò, l' Eneide fu pubblicata. A questa postuma pubblicazione, dunque, prima della quale mal si sarebbe detto che Virgilio avesse riabilitato un traditore; a questa postuma pubblicazione allude Dante, dicendo che Virgilio scese nel fondo della trista conca poco dopo la morte. Che poi la frase, trarre uno spirto dal cerchio di Giuda, valga riabilitare un traditore, l'ho già dimostrato, a proposito della ipotesi del Fransoni: qui aggiungo che la riabilitazione è veramente, per il riabilitato, un tornar da morte a vita; onde si giustifica pienamente, anche per questa considerazione, relativa al senso allegorico, l'aver Dante ricorso a colei che richiamava l'ombre ai corpi sui».

Ed eccomi ora, che n'è tempo, ad esporre l'ipotesi mia, sul traditore riabilitato da Virgilio.

Vis et Tarquinios reges, animamque superbam ultoris Bruti, fascesque videre receptos ? Consulis imperium hic primus, saevasque secures accipiet, natosque pater, nova bella moventes, ad poenam pulchra pro libertate vocabit. Infoelix! Utcumque ferent ea facta minores, Vincet amor patriae laudumque immensa cupido.

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Giornale dantesco, anno XIX, quad. IV-V.

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1

del primo Bruto, fintosi pazzo, fino al momento opportuno di sollevare contro il Superbo, suo re e consanguineo, il popolo di Roma; né richiamar l'attenzione sulla frase, utcumque ferent ea facta minores; accenno evidentissimo alla taccia di traditore, che, per l'uno de' due fatti (ea facta) accennati da Virgilio, poterono i posteri dare a Bruto; e tanto meno sulla riabilitazione che ne fa Virgilio, col famoso verso, vincet amor patriae laudumque immensa cupido; né, infine, occorre rilevare come ad Anchise, uno de' buoni spiriti, un veggente dell' Eliso, ben poteva Virgilio attribuire il proprio pensiero su Bruto, allo stesso modo che gliel' attribuí per tant' altri gloriosi Romani, e segnatamente per Augusto e per Marcello; non che per quella platonica dissertazione, che precede la rassegna dei discendenti di Dardano, sull' anima dell' universo. Ma ben mette conto di notare che questa riabilitazione di Bruto, per opera di Virgilio, non isfuggi a Dante, che nel De Monarchia, cosí scrisse: Nonne filios, an non omnes alios

postponendos patriae libertati, Brutus ille primus edocuit? »... « Cujus gloria renovatur in sexto poetae nostri, de ipso canentis: Natosque pater nova bella moventes, ad poenam pulchra pro libertate vocabit »; e la frase, cujus gloria renovatur, altro non significa, se non che la gloria di Bruto fu restaurata, reintegrata da Virgilio. Dopo di che, è inutile aggiungere quel che di Bruto stesso scrive Dante, anche nel Convivio; o ricordare, che, coerentemente alla riabilitazione di Bruto, fatta

da Virgilio e a cui Dante fa plauso, « quel Bruto che cacciò Tarquino è dallo stesso Virgilio additato al suo alunno nel nobile castello, insieme con gli spiriti magni, che Dante s'esaltava in sé d'aver visti.

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II.

Capo ha cosa fatta.

Per questa frase di Mosca de' Lamberti, resa famosa da Dante,' e commentatori, e storici, e vocabolaristi han tirato a indovinare : mancando loro anche il sussidio del contesto, ché Dante delle parole di Mosca, quando si deliberava dell' uccisione di Buondelmonte, non riferisce che queste soltanto, capo ha cosa fatta; le soluzioni, che di questo, diciamo cosí, indovinello dantesco sono state proposte, non potevano essere e non sono di fatto sodisfacenti. Incominciamo dalla più comune, quella della Crusca e d'altri vocabolarii, cosí antichi come moderni dopo il fatto ogni cosa s'aggiusta. Secondo quest' interpetrazione, la parola capo dovrebbe avere il senso figurato di rimedio, medicina: ma è ciò possibile? qual relazione è tra il capo sia nel senso proprio di testa, sia nel senso figurato di principio e il rimedio? Il Cesari spiega cosí questa relazione: « capo ha, cioè ha fine, ovvero presa o stiva, da riparare » ; e il Di Siena: <« noi sospettiamo

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che il motto sia una metafora allusiva ai tumori, che quando son fatti, cioè compiuti e maturi, hanno capo, per dove s'agevola la via all'uscita dell'umor guasto, e se ne ottiene la guarigione. Ma non sono spiegazioni da pigliar sul serio: la frase aver capo né significa aver presa o stiva da riparare (legittima quella giunta da riparare!); né è tutt'uno con l'altra, venire a capo, usata per i tumori. La Crusca poi ravvicina la sentenza, cosa fatta capo ha, al latino factum infectum fieri nequit, e al greco οὐκ ἔτι μεν δύναται το τετυγμένον siva: Tuxtov, di cui il latino è la versione: ma che cosa ha che far questo, con la sentenza, dopo il fatto ogni cosa s'aggiusta? Se mai il factum infectum fieri nequit potrebbe stiracchiarsi a significar l'opposto, cioè che nulla s'aggiusta dopo il fatto; ma che tutto s'aggiusta, ricisamente no.

Altri interpetra: < qualche volta non si trova chi voglia esser capo d'una cosa che dee farsi; ma il capo si trova sempre d'una cosa che già s'è fatta ›. Giacché bisogna interpetrare anche gl' interpetri di Dante, due cose può avere inteso di dire il Betti con

A. XXVI, 107

l'ultima sua frase: o che d'una cosa fatta si trova sempre chi è stato veramente il capo; oppure che d'ogni cosa fatta si trova sempre chi voglia esserne creduto l'autor principale: nell' un caso e nell' altro la sentenza è falsa. È falsa nel primo caso, perché, quando la cosa fatta è un malefizio, il capo, l'autor principale si tiene, piú che può, nell'ombra; e bene spesso non si trova e va impunito: è falsa nel secondo caso, perché, se d' un' opera che dà gloria è possibile che altri voglia farsene credere il capo; d' un'opera che arreca danno, inimicizie, castigo, è appunto l'opposto che avviene. Or un Mosca de' Lamberti, che non era uno sciocco, non sarebbe saltato su a dire una sentenza cosí falsa, tanto nell'uno, quanto nell'altro senso : a meno ch'ei non facesse assegnamento su <quelle parole gravide d'un senso misterioso », per ottener l'effetto, che, pur senza averne l' intenzione, ottenne dal suo omnia munda mundis il padre Cristoforo. Il che, veramente, non credo.

stato fatto; altro, ciò che è fatto non si può disfare: l'una è sentenza giustissima sempre; l'altra, è giusta solo in alcuni casi; falsa in moltissimi altri se io ho scritto un periodo, certo non posso annullare il fatto d' averlo scritto; ma benissimo posso cencellare, annullare il periodo, disfarlo, e scriverne un altro.

Il Giusti scrive: « Capo ha cosa fatta. Lo stesso che dire: tutto sta nel cominciare. Difatto non si può dire che nessun' impresa abbia capo, cioè principio, fino a tanto che sia solamente in disegno ». Ma come la frase cosa fatta ha principio, sia tutt'uno con l'altra, tutto sta nel cominciare; come, cioè, una frase, che, detta a mo' di sentenza, è una goffaggine, possa esser tutt'uno con una sentenza quasi sempre assai giusta; io, con tutto il rispetto che si deve al Giusti, non lo comprendo: perché la frase tutto sta nel cominciare avesse un equivalente nella frase di Mosca, questa dovrebbe, almeno, sonar cosí di cosa fatta il più o tutto è nel capo.

Per finire, ecco altre tre interpetrazioni: << il Mosca de' Lamberti disse la mala parola, cosa fatta capo ha, cioè che fosse morto » (Vil

principio » (Ammirato, Bianchi, ecc.); « opera non lasciata a mezzo ha più agevole un termine » (Tommaseo): tre interpretazioni l' una piú arbitraria dell'altra; ché il capo non ha relazione alcuna con la morte; capo ha non è lo stesso che capo avrà, per poterlo interpetrare al fatto sarà data principio; infine la cosa non lasciata a mezzo significa che addirittura ha avuto il suo termine, non già che lo avrà piú agevolmente.

Una vecchia interpetrazione (Vellutello), rimessa in onore dal Del Lungo, è questa: < cosa fatta non può disfarsi; riesce ad un capo, ad un fine, a un effetto: e perciò s'uccida addirittura Buondelmonte, senza pensar | lani); lani); uccidiamolo, e cosí al fatto sarà dato troppo com' andrà a finire; basta ch'e' muoia ». - Ma può darsi legittimamente a capo questo senso di fine o d'effetto? Non sembra: infatti, sarebbe strano che una stessa parola avesse due sensi, l'uno diametralmente opposto all'altro; ché quello di principio, origine, e quindi di causa, la parola capo certamente lo ha. Inoltre, è sempre vero che una cosa la quale ha un fine, un effetto, non può disfarsi? Qualcuno (Berthier) cita a questo proposito il proverbio francese, rien n'est têtu comme un fait; ma caparbio, ostinato (têtu) vale che non si può persuadere, non già che non si può disfare: il proverbio francese, dunque, varrà che il fatto non si può cambiare, non già che non si possa disfare. In altre parole, quando noi ci troviamo di fronte a un fatto, non si può certo cambiarne la faccia; non si può dire che esso sia bianco, se è nero; perché il fatto è li ad attestarci ciò che esso è; ma benissimo possiamo, in molti casi, disfare ciò che è fatto, e fare altra cosa. Meno a sproposito, che non il proverbio francese, si citerebbe, per l'interpetrazione di cui discutiamo, il latino factum infectum fieri nequit; ma a sproposito sempre; ché altro è dire ciò che è fatto non si può far che non sia

Ed ora, ecco come io interpetro la frase di Mosca.

Poiché Dante, come ho accennato, non ci riferisce, delle parole di Mosca, che la sola frase capo ha cosa fatta; e una frase non si può pretendere che sia interpetrata a dovere, se non sia messa in relazione col contesto; occorre cercare questo contesto fuori del Poema. Al che opportunamente ci soccorre la Cronaca fiorentina compilata nel sec. XIII,1 che, narrata con molti particolari l'origine dell' inimicizia tra i Buondelmonti e gli Amidei; narrato che nella

1 Cfr. VILLARI, I primi due secoli della St. di Fir., II, 233-234.

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